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Andrea Mennini Righini

OTTO PICCOLI FRATI

OTTO PICCOLI FRATI

Un ex-commissario in pensione, Rigoletto Bianchi, molto fedele alla religione e cultore delle buone letture, trascorre da anni un periodo di riposo nell'abbazia benedettina di Frassinoro, sull'appennino tosco emiliano.
L'abbazia è in procinto di chiudere e gli otto frati rimasti sono presi dai preparativi del trasloco.
Un furto singolare porta l'abate a chiedere l'aiuto all'ex-commissario che si ritrova a indagare tra i frati portando alla luce aspetti che nessuno si sarebbe immaginato.
La morte improvvisa di uno di essi complica maggiormente la situazione e Rigoletto Bianchi, seguendo il suo metodo deduttivo, dimostrerà che tutti i frati sono potenzialmente colpevoli, ma solo uno è il vero responsabile.

Un omaggio, dichiarato, ad Agatha Christie.

TERZO CLASSIFICATO AL GIALLOFESTIVAL 2022

Leggi il primo capitolo

1° GIORNO 

 

(Lunedì, 26 settembre 1966)

Adoravo fare due passi in attesa dei vespri, quando nel cielo sfuma la lucentezza delle ore mediane del giorno e l’aria diventa più densa.
Il sentiero che avevo imboccato e che si dirigeva verso valle ramificandosi in più direzioni, prendeva avvio dalla porta carraia dell’abbazia e passava sotto le finestre delle cucine. 
Camminando a passo svelto, dopo aver attraversato il letto del Dragone, per molti tratti ancora a secco, passando su dei sassi posizionati a valle di una piccola ansa del torrente, e superato un piccolo bosco di forra largamente ombreggiato dall’acero di monte e dal tiglio nostrano, raggiunsi un belvedere seminascosto tra gli alberi dove ero solito rifugiarmi per stare solo con i miei pensieri e bearmi della vista di quella parte di dorsale appenninica che tanto amavo.
Seduto sulla parte liscia di una pietra che sembrava essere nata per quello scopo, mi misi a guardare l’orizzonte.
Qua e là nelle coloniche sparse, e più lontano tra le case dei paesi arroccati di cui non conoscevo, o non ricordavo, il nome, si intravedevano le prime fioche luci delle lampade accese.
Sapevo di non potermi trattenere molto per via della chiusura del portone del monastero alle diciotto e trenta, ma il poco tempo che mi ero ritagliato per quella passeggiata mi sarebbe comunque bastato per riconciliarmi con me stesso e andare a dormire sereno come un pargolo. 
Per questo, dopo una ventina di minuti, ripresi la via del ritorno. 
Erano quindici anni che verso gli ultimi giorni di settembre venivo a passare un paio di settimane presso l’abbazia di Frassinoro, un antico monastero situato nel modenese, ospite dei frati Benedettini Sublacensi che popolavano da sempre quel paradiso, per ritemprarmi dalla quotidianità cittadina e pregare per la mia povera anima peccatrice. 
Avevo conosciuto quei luoghi, e segnatamente il paese di Toano, casualmente, per via di un’indagine che mi era stata affidata dal questore di Bologna, e che mi aveva obbligato a trattenermi da quelle parti per un paio di giorni, ma anche permesso di scoprire i numerosi sentieri che solcano le montagne intorno al paese e gli altri numerosi luoghi d’interesse che abbondano nella zona, tra cui l’abbazia di Frassinoro.
Il servizio che al tempo svolgevo alla sezione omicidi del capoluogo, ma che territorialmente comprendeva mezza Emilia, mi stava consumando nel corpo e nello spirito, e l’aver trovato quel luogo così lontano dalle cose terrene mi aveva appagato così tanto che ancora adesso che sono in pensione non posso fare a meno di trascorrere almeno una quindicina di giorni all’anno tra le capaci mura di quell’abbazia. 
Sapevo che i Benedettini non amavano ospitare laici se non per partecipare alle funzioni religiose dei giorni comandati, ma per me avevano fatto un’eccezione, probabilmente per via del ruolo che ricoprivo e del mio modo di pormi, sempre rispettoso delle regole oltre che partecipativo delle severe attività monastiche. 
L’unico anno che avevo dovuto saltare quella salutare pausa, era stato a causa di una complessa attività di polizia che aveva coinvolto diverse sezioni in tutta la regione e che, muovendo dall’omicidio di un imprenditore di Imola, tale Alberto Locatelli, aveva scoperchiato una rete di estorsori e usurai che stavano mettendo in ginocchio molte aziende del territorio. 
Pur essendo passati diversi anni ricordavo ancora il nome in codice dato a quell’indagine: Operazione orso, dal nome del pericoloso capo banda Tullio Orsini, che arrestai personalmente dopo un giorno e una notte di faticosi appostamenti davanti alla casa dove si era nascosto.
Arrivato all’altezza di un antico lavatoio ormai semicoperto dalle erbacce e accortomi che il sole stava già intaccando la cima del monte Modino, la vetta più alta dei dintorni, scelsi di prendere il sentiero più diretto verso l’abbazia, che era certamente più corto come distanza, ma anche notevolmente più ripido. 
Percorsi pochi metri, mi fermai a guardare la vallata sentendo crescere imperiosamente dentro di me il dispiacere per l’imminente arrivo della sera.
Non si trattava solo dell’umana naturale avversione per il buio, che tutto nasconde e rende incerto, bensì del fatto che ognuno di quei tramonti significava un giorno in meno di permanenza in quei luoghi.
E in effetti mancavano meno di tre mesi alla definitiva chiusura dell’abbazia, conseguenza inevitabile dell’improvvida decisione della Curia che così aveva stabilito.
Ragion per cui, a far data dal primo gennaio 1967, il monastero sarebbe stato abbandonato dai frati per essere destinato ad altri usi, e io avrei dovuto trovarmi un altro luogo per le mie ritempranti vacanze. 
Nessuno sapeva per quale ragione fosse stata fatta quella scelta, ma la voce indiscreta che circolava con maligna insistenza era quella della cessione dell’intero complesso a un danaroso magnate americano che avrebbe trasformato l’abbazia in una residenza turistica di lusso.
Insomma, quelle mura non avrebbero più ospitato preghiera e penitenza, bensì svago e opulenza.
Anche se i tempi stavano cambiando, l’economia correva e ognuno, compresi i miei fraticelli, doveva pagare un prezzo per la modernità, mi domandai come si sarebbe sentito San Benedetto nell’udire la notizia. 
In ogni caso il fatto non era edificante, e io volevo trascorrere quei giorni senza pensare ad altro che a godere di quelle passeggiate intorno a Frassinoro. Per questo ritardavo sempre di più il mio rientro e, sempre per questa ragione, avevo chiesto di poter occupare la celletta che ogni anno mi veniva assegnata, in modo da poter vivere più intensamente la vita di comunità, anche se dal convento si erano già trasferiti più di trenta frati, rimanendone in sede solo sei, oltre all’abate e al priore, per svolgere le ultime incombenze e l’ordinaria amministrazione. 
Poi anche questi si sarebbero spostati nell’abbazia di San Liberatore a Majella, a pochi chilometri da Serramonacesca in provincia di Pescara, convento deputato come loro nuova sede e luogo di nascita e di residenza dell’abate prima che prendesse i voti. 
Anche in questo caso si trattava di un luogo ameno, un gioiello di architettura religiosa romanica che conoscevo per averlo visitato in tempi lontani durante un pellegrinaggio e di cui ricordavo la grande parete rocciosa levigata dal tempo che si stagliava dietro l’antica costruzione, oltre al piccolo complesso dell’adiacente eremo che conservava al suo interno un giaciglio, chiamato culla di Sant’Onofrio, dove i fedeli si sdraiavano a turno considerandolo miracoloso per guarire dal mal di pancia o dalla febbre. 
Nell’avvicinarmi all’abbazia, mi fermai ancora per osservare le mille sfumature del bosco e i tenui colori di quella splendida stagione. Amavo posare lo sguardo sulle distese dei faggi che spaziavano dall’erta sotto le mura ad est fino in fondo valle, con il giallo delle foglie ormai trasparenti ad annunciare la loro imminente fine. 
Se di giorno mi sedevo sull’erba di una delle numerose radure per ascoltare lo stormire delle frasche e lo scorrere dell’acqua del Dolo mentre osservavo il volo radente degli storni, all’ora del tramonto mi piaceva appoggiarmi con la schiena contro qualche albero secolare e dirigere il volto contro il sole, lasciandomi così avvolgere dal tepore di quei raggi e dall’abbraccio materno di nostro Signore.
Arrivato nel tratto in cui il sentiero si ricongiungeva con la parte più larga e curata della strada, precisamente all’altezza di uno slargo che si trova a una cinquantina di metri dall’ingresso principale del monastero, incontrai frate Antonio, il paffuto e ridanciano magazziniere e cellario di Frassinoro, il cui aspetto e modo di fare stonava non poco con l’austera tonaca benedettina, che stava lentamente caracollando verso l’abbazia.
Avvicinandomi lo salutai con la solita viva cordialità. 
— Buona sera Antonio. Sia lodato Gesù Cristo.
— Sempre sia lodato. Come va? Sei stato a fare la solita passeggiata salutare?
Notai immediatamente il sarcasmo che aveva messo sulla parola “salutare”.
— Ovviamente. E tu cosa fai ancora fuori? Non ti fa freddo?
Nel raccogliere la consueta e innocua provocazione, replicai alle parole del fraticello mettendo l’accento sul vento che si stava alzando e sulla sua ben nota avversione per le basse temperature.
Antonio non replicò indicandomi silente, ma con il dito indice puntato a valle, qualcosa che scendeva verso il basso: una macchina, forse una vecchia seicento bianca che si allontanava velocemente, poi continuò.
— Ho ritirato le consegne della carne di manzo ordinate per questo fine mese, annullato quelle del prossimo, e programmato il ritiro di ciò che risulterà comunque in eccesso. L’ho dovuto fare con largo anticipo per evitare accumuli inutili e per vuotare il magazzino, almeno faremo contenti i poverelli del circondario, perché non possiamo certo portarci dietro prosciutti, salami e bistecche… fino alla Maiella.
Il modo con cui aveva richiamato il luogo dove era stato comandato non esprimeva gaiezza, e sembrava avere tutt’altro tono che una semplice citazione geografica. 
Il cellario continuò a parlare dopo aver leggermente esitato, indeciso se continuare o meno a farmi partecipe della sua inconsueta lamentazione, nonostante avessi dimostrato in più occasioni di essere un amico, più che un ospite, di lungo corso e affidabilità. 
Probabilmente decise poi di fidarsi, perché il frate continuò il discorso mantenendosi sullo stesso tenore.
— Dopo trent’anni che stai in un posto, non è che sei felice di lasciarti tutto alle spalle, e poi senza una ragione né un perché. A meno che “qualcuno” non abbia visto nel giusto?
Antonio, che non riusciva ad accompagnare con adeguate espressioni facciali il senso delle proprie parole, evidentemente fondate su disagio e malinconia, sembrava invece sorridere di gusto. Se non fosse stato lui, avrei pensato che mi prendesse per i fondelli, ma sapendo che questi aveva un difetto fisico che gli impediva il movimento di alcuni muscoli facciali, non detti peso alla cosa più del dovuto.
In ogni caso non sapevo cosa rispondere, ma qualcosa dovetti pur dire.
— Capisco, anche se evidentemente posso solo immaginare il senso di smarrimento che stai provando, come credo ognuno all’abbazia.
Per un attimo tutti e due volgemmo lo sguardo verso le montagne che ci circondavano e che erano state per secoli mute testimoni della storia di quel monastero e delle genti che vi avevano vissuto. 
Il sole rosso del tramonto si era ormai nascosto tra le chiome frondose, come se anch’esso fosse in qualche modo dispiaciuto per quegli eventi, e il frate si rivolse nuovamente a me esibendo ancora una volta il suo sorriso malato.
— Ti va di rientrare insieme?
— Certamente, anzi lascia che ti dia una mano.
Mentre dicevo queste parole, mi piegai leggermente cercando di afferrare con le dita la parte finale del grande sacco di iuta che Antonio pareva trascinare a fatica, in modo da condividere il peso, ma il buon frate si allontanò da me con uno scatto improvviso impedendomi di raggiungerne il fondo.
— No, no. Lascia stare, è un mio compito e lo posso fare bene da solo come ho sempre fatto.
Poi senza dire altro, in modo ingeneroso e senza usarmi la solita cordialità e gentilezza, come se gli avessi pestato con forza un callo dolorante del piede, si diresse senza salutare e a passo svelto verso il magazzino. 
Solo dopo che si era allontanato una decina di metri, forse pentito della maleducazione usatami, si girò di scatto.
— Buona notte commissario, buona notte.
Nonostante il comportamento tenuto, che avrebbe meritato un silenzio sprezzante, risposi con la mia consueta cortesia e educazione.
— Ciao, buonanotte, e comunque non sono più in servizio.
Interdetto per il comportamento di Antonio, ma abituato ai gesti dei frati talvolta incomprensibili, che ritenevo dovessero essere conseguenza di una vita particolare, esasperata in questo caso anche dal nervosismo provocato dall’imminente, immotivato e ingiusto trasloco, evitai ulteriori considerazioni e mi diressi verso il mio alloggio passando per la piazza della chiesa.
***

Era presto per rientrare in cella e non avevo voglia di cenare in refettorio. Per questo, dopo aver deciso di consumare dell’affettato nella mia stanza in compagnia della settimana enigmistica e di un rebus che mi dava del filo da torcere da un paio di giorni, mi diressi verso la dimora dell’abate per omaggiarlo con un saluto serale. 
Per arrivare all’appartamento del superiore, che si trovava a circa metà strada fra la piazza grande della chiesa e la zona dove erano ubicate la maggior parte delle attività abbaziali, e che era collocato al primo piano di una costruzione di colore più chiaro e di fattura più elegante rispetto al resto degli altri edifici, si doveva attraversare un piccolo chiostro le cui volte erano state mirabilmente affrescate da Pietro Bacchi da Bagnara, un monaco pittore del 1300, per poi introdursi in un corto corridoio interno in fondo al quale si trovavano delle ripide scale che terminavano proprio di fronte alla cella del superiore di quella comunità.
Nel mentre ero fermo ad ammirare la grazia dei dipinti che allietavano quel percorso e che conservavano ancora la lucentezza degli antichi colori, udii la voce di due persone che litigavano. 
La cosa mi incuriosì e preoccupò non poco, perché quella era l’ora che i frati erano soliti dedicare alle ultime preghiere del giorno, e da quando ero ospite di quel monastero mai era successo di sentire qualcuno che alzasse la voce, soprattutto in quella maniera sguaiata e men che meno nelle stanze dell’abate.
Per questo, contrariamente a ogni principio di rispetto e riservatezza, salii i primi gradini della scala che avevo di fronte per ascoltare ciò che filtrava da dietro la spessa porta di noce che mi separava dai due uomini.
— Non posso, la mia coscienza non me lo permette.
La voce che riconobbi fu quella dell’abate, mentre non riuscii ad individuare l’altra, che non risultava molto chiara per via del tono innaturalmente alto e della rabbia che la distorceva.
— Non è la tua coscienza, è la tua vendetta. Ti maledico!
— Dovevi pensarci prima.
In quel mentre la porta si spalancò, e dalla stanza uscì come una furia frate Giovanni che si dileguò in un baleno nel corridoio, esattamente dalla parte opposta rispetto all’incavo dove ero riuscito a nascondermi. 
La rapidità con cui ero riuscito ad evitare di essere visto mi gratificò non poco, non tanto e non solo per l’imbarazzo della situazione, quanto perché questi riusciva a mettermi a disagio ogni volta che lo incontravo. 
Non ero mai a riuscito a capire se la ragione dipendesse dall’aspetto di quel frate secco, allampanato, e del peso di un grillo, che con la sua rigorosa chierica d’ordinanza e lo sguardo costantemente assente, sembrava vivere su un altro pianeta, o se esistesse tra noi una difficoltà di comunicazione oggettiva che non aveva una ragione specifica, ma il fatto era che con quel religioso non ero mai riuscito a instaurare un qualsiasi tipo di relazione.
In pochi minuti, senza essere visto da nessuno, scesi di nuovo le scale e mi ritirai nella mia cella, non ritenendo più opportuno né conveniente fermarmi a salutare frate Michelangelo.
Stanco per l’intensità della giornata passata tra i lavori nell’orto e la preghiera, dimenticai l’alterco a cui avevo assistito, e che comunque mi aveva colpito sia per il tono e le parole usato dai litiganti, che per il livore represso che si avvertiva nell’aria, sganciai la spessa cintura di cuoio che mi stringeva la vita, tolsi la tonaca nera, che come simbolo della regola benedettina sublacense era obbligatoria come una divisa per chiunque soggiornasse nel monastero, sfilai con evidente soddisfazione delle dita i sandali e, dopo aver divorato pane e mortadella e dato una robusta sorsata al rosolio che gelosamente custodivo nella parte inferiore del comodino, mi distesi sulla comoda branda addormentandomi dopo aver dato soluzione al rebus, che si rivelò meno complicato di quello che credevo. Si trattava infatti di dare alla parola che continuavo a leggere come “pazienti”, il nome corretto di “de-genti” che, diviso in due e collegato ad “avi” che la precedeva e che avevo già individuato come prima parte del quesito, formava la frase di senso compiuto che mi mancava, e cioè : avi de genti = avide genti.

Specifiche

  • Genere: Giallo
  • Collana: I gialli Damster
  • Formato: 14x20 cm
  • Pagine: 270
  • ISBN: 978-88-6810-518-1
  • Anno pubblicazione: 2022
  • Prezzo copertina:: 15

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