La realtà che noi chiamiamo mondo Un viaggio in bicicletta attraverso l'Iran
La realtà che noi chiamiamo mondo racconta di un viaggio in bicicletta di 2.500 Km attraverso l’Iran. Spinto dal desiderio di andare oltre le poche e spesso incomplete notizie che passano i telegiornali e le testate dei principali media, nell’estate del 2016 Francesco Ciprian decide di andare a scoprire direttamente quella realtà, spinto dalla domanda che sempre più frequentemente aveva occupato i suoi pensieri: cos’è la realtà che noi chiamiamo mondo? E ponendo questa domanda alle tante persone conosciute nel viaggio ha avuto modo di scoprire il popolo più ospitale e generoso mai incontrato, sempre pronto ad aprirsi a discorsi intimi, in qualsiasi campo, con estrema rapidità e naturalità. Tante ed estremamente variegate le risposte raccolte: chi si affida ad Allah, chi spera nella futura laicità del Paese, chi non accetta la religione perché imposizione brutale nella vita quotidiana di tutti, chi sogna un mondo senza frontiere. Un racconto impreziosito da numerosi spunti storici, sociali e religiosi, che aiutano il lettore a comprendere al meglio la realtà iraniana, e medio- orientale in genere, lontano da pregiudizi, luoghi comuni e falsi miti.
Leggi il primo capitoloNon necessariamente l’inizio Se fossi una persona a dovere, in una serata come tante altre, mi slaccerei la cintura dei pantaloni, aggiusterei l’elastico delle mutande e mi affosserei dentro il divano alzando i piedi stanchi all’altezza del basso tavolino. Bestemmierei al termine dell’ennesima giornata insoddisfacente e pregherei qualsiasi cosa o entità mistica purché non mi faccia rimanere solo in questa casa così grigia e tetramente asettica.Accenderei la scatola che parla andando a ricadere sui soliti show di intrattenimento, sfregherei la mano sulle mutande, un po’ sotto l’elastico. Palinsesto godereccio.Se fossi una persona a dovere avrei l’illusione di voler rimanere informato su cosa succede al di fuori delle mura di questa casa grigia, dove il mondo pare non essere poi così anonimo. Riprenderei a bestemmiare, questa volta inconsciamente, come ovvia conseguenza a notizie che incupiscono il cuore e ogni spirituale iniziativa di amore nei confronti del prossimo e, ancora prima, su noi stessi.Essendo sfinito e provato da una giornata di lavoro fintamente produttivo, mi affiderei ciecamente alle preveggenze del tubo catodico (o, almeno, quello che era una volta il tubo catodico). Mezz’ora di informazione giornaliera sono sufficienti a ricordarmi che, là fuori, il mondo è un brutto posto e non lascia spazio a sogni e a fantasticherie. Assassini, stupratori, economia in rotta di collisione con il baratro, politica corrotta, immigrati affamati, malattie, omofobia, xenofobia. All’improvviso queste quattro mura asettiche, a vederle meglio, non sembrano più così grigie e tristi. Si sono trasformate in uno scudo che protegge da tutto quello che c’è al di là della mia realtà che di reale ha solo la mia parola.Il notiziario televisivo, percepito il disagio esistenziale, è lesto a mostrare immagini meno cupe ma ugualmente effimere. Nel gran finale vi è l’impresa vincente della squadra di calcio del momento, se è la mia forse questa volta non bestemmio.Se fossi una persona a dovere delineerei come autentica la realtà mostratami dalla scatola luminosa. Lo farei perché avrei tagliato ormai da tempo quel sottile filo che collega il sentire al pensare, la fantasia all’azione, la nazione alla religione, la vita alla morte, il bianco al nero, l’amore all’ossesso. La realtà rimbalzerebbe costantemente tra innumerevoli versioni provenienti da una frontiera che è posta oltre i miei cinque sensi, fornite da fonti autoreferenziali alle quali non posso che affidare il mio mondo, in quanto io, di questo mondo, non saprei cosa farmene. Avrei allora smarrito ogni verità, sottomesso a dogmi autoritari che richiedono fedele e assoluta obbedienza.Se fossi tutto questo non farei a meno di notare che ultimamente si parla molto di Medio Oriente. Di quei popoli lì, che alla fine sono tutti arabi e musulmani, jihadisti terroristi, dei quali devo avere paura perché odiano fermamente i cristiani.Ma io cristiano non lo sono, però siccome sono nato e vivo in Italia loro credono che io lo sia, un bel guaio.Decisamente, penserei che il mondo è un posto pericoloso, eccetto quello occidentale che sembra l’unico sano di mente da avere la forza e il coraggio di esportare lezioni di democrazia e pace, sconfiggendo i cattivoni e liberando popoli oppressi.Sarei teleguidato e mi sentirei estraneo in un mondo di estranei. Giudicherei stranieri popoli appartenenti a culture che organizzano le loro vite in maniera diversa, perché meno progredite e moderne della mia.Se fossi una persona a dovere farei quello che mi viene detto di fare, rinforzerei le barricate fuori dalla porta di casa, sfregherei un altro po’ la mano sulle mutande e andrei a dormire con una sola certezza. Vedendo come vanno le cose, sono fortunato ad avere questa vita e sono disposto a lottare con i denti pur di non cambiarla, casa grigia e asettica compresa.Se non fossi invece una persona a dovere, metterei in discussione le informazioni che ricevo giornalmente da chi dice di aver visto cose che crede io non possa vedere e letto parole che pensa io non abbia tempo e voglia di leggere. Sicuramente smetterei di pensare secondo indicazioni fornite, criticherei tutto quello che mi viene detto compreso il mio stesso pensiero, perché anche lui, tra i primi, ha bisogno di essere messo alle strette.Aprirei la porta di casa, uscirei a testa alta correndo verso il prossimo, quello che qualcuno vuole io eviti. Parlerei con lui fino a tarda notte e lo abbraccerei come un fratello. Leggerei un sacco e pedalerei tra le parole sognate e materializzate nella realtà dettata unicamente dai miei fronti sensoriali. Ed è esattamente quello che ho ancora intenzione di fare, questa volta in Iran. E questa è solo un’altra storia, una delle tante che vengono raccontate, che cerca di prendere forma nello specchio oculare soggettivo. Non è l’unica versione, non potrebbe essere diversamente. Il tempo descrive una moltitudine parallela di storie, a seconda di chi le racconta, le ascolta, le confuta, le infama, le elogia, le trasmette a sua volta. Negli ultimi dieci anni, che si sia trattato di preparare uno zaino da tenere in spalla in lunghe giornate di cammino e autostop o di borse da appendere alla bicicletta, in fase di preparazione a un viaggio, ho sempre scelto con scrupolosa attenzione ogni oggetto da portarmi appresso. Li prendo in mano uno ad uno, valuto il peso, l’ingombro. Poi mi domando, mi è assolutamente necessario? Che probabilità ho di usarlo? Posso sostituirlo con un oggetto più leggero e meno ingombrante?Nell’estate del 2016 affronto di nuovo questi piccoli dilemmi, chino sulla mia bicicletta, in procinto di entrare nelle terre dell’antica Persia. Tutto è pronto e se le aspettative saranno all’altezza, percorrerò un anello di oltre duemilacinquecento chilometri partendo da Teheran, toccando a sud Esfahan, risalendo il Kurdistan iraniano a ovest, costeggiando il Mar Caspio a nord e fare infine rientro in capitale.L’aereo di andata necessita di prendere fiato e rifocillarsi in Germania. Nella sala di attesa all’imbarco c’è una maggioranza assoluta di iraniani, perlopiù emigrati e figli di emigrati di ritorno alla loro terra di origine per le vacanze estive. Stanno andando a trovare i propri parenti, sono pronti ad assaporare il cibo che li ha fatti crescere e innamorare delle proprie mura di casa, vogliono toccare la terra del cortile e del paesaggio che arrossisce al tramonto del sole.Alzo le orecchie e non posso fare a meno di notare che i più giovani degli iraniani che mi circondano parlano inglese, tedesco e olandese. Sono le lingue che ormai sputano quotidianamente e forse sono le stesse che masticano da quando sono nati. Qualche anziana signora siede paziente, fissando il cielo fuori dalle grandi finestre che aprono la vista alla pista di atterraggio, attendendo che venga concesso il permesso di salire a bordo. Le anziane sono le sole a indossare un velo sul capo, sottile e colorato di piccole ma dettagliate figure.Il viaggio di andata, come ogni singola volta, porta con sé l’eccitazione e l’impazienza di incominciare, di scoprire e perdersi in una nuova realtà immaginata, sognata e forse a lungo cercata. Sarà sicuramente diversa da quella che custodisco nella mia mente, per certi versi deludente; per altri invece saprà stupirmi e lasciarmi a bocca aperta, impreparato alle fantasticherie quotidiane di una vita che sentiamo distante e arcana, ma in fondo basilare e sincera.Una voce distorta risuona in tutta la lunghezza del velivolo, il pilota annuncia che l’atterraggio è previsto a momenti. Nello stesso istante dilaga un mormorio di ghigni e sorrisi a denti stretti. Tutte le donne, giovani o anziane, si alzano per raggiungere le cappelliere e recuperare dalle borse il proprio velo. Qualcuna lo sfila da dietro la schiena, sprofondato nel pesante corpo di chi per ore non si è mai staccato dal sedile. Si preparano per prime all’atterraggio, invadono i corridoi centrali nell’ammutinamento silenzioso degli uomini che pazientemente attendono il loro turno comodamente seduti alle poltrone. Donne e ragazze porgono un cortese saluto alla hostess di bordo prima di uscire e incamminarsi verso l’aeroporto di Teheran, consce che d’ora in poi, per tutta la durata della loro permanenza in Iran, saranno obbligate per legge a coprirsi il capo.Lo sbarco è completato a un’ora scarsa dopo la mezzanotte. Con gli occhi abbozzati ci ritroviamo tutti in fila al controllo passaporti come lente pecore al pascolo. I poliziotti di turno sono eccessivamente calmi e prendono tempo prima di accordarci il via alla transumanza. Un ragazzotto, dietro il vetro del gabbiotto adibito al controllo documenti, si aggiusta la divisa, sorseggia parsimonioso del tè come fosse l’ultima cosa che deve fare in questa vita. I suoi amichetti scherzano tra di loro giocherellando con i cellulari.La folla di pecoroni incomincia a premere sempre più agli sportelli. Ragazzotto e amichetti non si scompongono. È trascorsa più di un’ora dall’atterraggio e non siamo ancora riusciti a entrare in territorio iraniano. Dalle retrovie una donna perde la pazienza e incomincia a inveire contro le guardie insinuando che tutta questa scortesia e maleducazione è propria dei popoli arabi, di certo non si addice a quello iraniano. L’affermazione crea una sconcertante ondata di approvazione tanto che in molti si uniscono al coro di protesta. Sia mai che il popolo iraniano venga accostato a quello arabo. Le poche cose che questi due condividono sono l’alfabeto e la religione. Altrettanto offensivo è confondere la filosofia islamica con quella araba.Aspetto in silenzio, appoggiando le proteste con lo sguardo. In piedi accanto a me c’è un giovane ragazzo dai lineamenti gentili e delicati. I nostri sguardi si incrociano un paio di volte, lui sorride. È iraniano di nascita ma trasferito a Londra in tenera età. Non lo suppongo, me lo dice lui stesso rivelando una voglia di conversare anche solo per ingannare il tempo che sembra non passare più. Mi fa notare che qualche manciata di minuti dopo di noi è atterrato un aereo dall’Iraq, forse è questo il motivo di tanto ritardo, vogliono accorpare le due mandrie al confine e, se possono, spazientirle.L’impazienza continua ad aumentare e quando finalmente riesco a ottenere il timbro sul passaporto mi concedo il tempo di qualche respiro, ritiro i bagagli al rullo ormai fermo da ore, esco all’aria aperta e monto la bicicletta con molta calma e attenzione. Il giovane ragazzo iraniano e il suo sorriso sono spariti nella confusione stanca dell’aeroporto.Imbocco la strada verso Qom in piena notte. L’aria è fresca e silenziosa, l’adrenalina spinge sulle gambe, l’eccitazione è incontenibile. Sono molto stanco e provato dal viaggio, eppure non riesco a fermarmi. Il paesaggio si apre immediatamente al deserto roccioso, l’unica visione che mi sarà concessa per qualche giorno, fino a che terrò la direzione sud. La terra brulla e secca si estende per chilometri e chilometri alla mia vista, sino all’orizzonte. Il sole fa capolino intorno le sei del mattino, pallido e timido. Prima di mezzogiorno raggiungo la città, appena in tempo per scappare da improvvisi raggi caldi e potenti che ustionano la pelle bianca.
Specifiche
- Formato: 148x210
- Pagine: 152
- ISBN: 9788897320524
- Anno pubblicazione: 2019
- Prezzo copertina:: 12.00