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Martina Benvenuti

CUORI IN FUORIGIOCO

CUORI IN FUORIGIOCO

Lui è una promessa del calcio destinato all’esordio in serie A.
Lei è la prima della classe, schiva e per niente popolare.
Lui deve prendere un diploma.
Lei è l’unica che può aiutarlo.
Giocheranno una partita entusiasmante piena di colpi di scena e ripartenze in contropiede.

 

ROMANZO PRIMO CLASSIFICATO A R come ROMANCE 2022

Si conclude la trilogia dedicata all'amore e allo sport

L’anello rosso
Il rovescio dell’amore
Cuori in fuorigioco

Leggi il primo capitolo

1
OGGI

Guardo gli origami colorati, in fila davanti allo specchio e sorrido. 
Ogni lunedì me ne regala uno diverso.
Mi sono andata pure a cercare da dove nasce questa antica arte del piegare la carta e ho scoperto che arriva dalla Cina, ma poi è in Giappone che si è sviluppata maggiormente. Qui ogni forma di origami è associata a un significato specifico: la gru, ad esempio, è simbolo di immortalità. E lui me ne ha regalata una proprio la settimana scorsa.
Ho sempre detestato il primo giorno della settimana, soprattutto per i bruschi risvegli, ma da qualche mese non vedo l’ora che la domenica finisca per poter aprire gli occhi la mattina dopo. Almeno so che lo incontrerò. 
Lui è diventato un’àncora di salvataggio nella tempesta che ha travolto la mia vita. È arrivato quando pensavo di non avere più niente a cui aggrapparmi, niente da sognare, niente da desiderare. E invece…
Mi guardo di nuovo allo specchio. Come stai, Lidia? Come stai davvero, intendo. Ti senti felice? Oppure stai solo galleggiando e ti illudi di stare bene?
Metto un filo di trucco, arriccio un po’ i capelli sulle punte e, sopra gli immancabili jeans, indosso il mio maglioncino preferito, quello di cotone celeste con le costine. Poi prendo al volo due biscotti dal barattolo e mi incammino verso l’ospedale. Prenderò un caffè alle macchinette o forse una cioccolata. È un bel settembre, fa caldo. Qualcuno se n’è andato e mi ha lasciata sola. L’estate invece sembra non volerlo proprio fare. 
Sul cellulare arriva la notifica di un messaggio. 
- Io me ne vado adesso, Bruno ha appena fatto colazione. Ha riposato bene e ti aspetta impaziente. Vuole che gli porti il giornale per vedere i commenti sui risultati delle partite.
Mia madre. Come sempre. Mi costa farlo, ma devo fermarmi all’edicola.
La squadra di serie A, fiore all’occhiello della nostra città, si sta comportando molto bene in campionato. So di chi è gran parte del merito. Chissà quanti articoli avranno scritto su di lui sulla cronaca locale.
Allontano certi pensieri dalla mente e mi sforzo di non aprire il giornale. Questo è il mio lunedì e nessun ricordo deve turbare i bei momenti che aspetto da tutta la settimana. Ma di colpo mi torna in mente una frase che avevo letto da qualche parte: “Il passato non è solo ciò che è successo, ma anche ciò che sarebbe potuto succedere e non è avvenuto...” e io mi chiedo quale dei due cerco di tenere lontano dal mio presente: quello che è stato o quello che non è accaduto?
Varco le porte dell’ospedale e il solito profumo di disinfettante mi assale. Non ci si abitua mai a quest’odore, un misto di etere e fenoli che spesso racconta storie di sofferenza. Quella mia e del mio fratellino dura ormai da tre mesi. 
Salgo al reparto pediatrico e raggiungo la camera di Bruno. Lui, disteso sul letto, guarda verso la finestra, ma appena mi sente entrare si gira. Mi sorride. Ancora non può parlare, ma con quegli occhi che si illuminano riesce a dire più cose che con le parole. 
Prende la sua lavagnetta accanto al letto e scrive “Oggi sei bella!”
«Grazie» gli rispondo. «E gli altri giorni no?»
Poi gli do un bacio sulla testa, spiumacciando un po’ il cuscino. I capelli che stanno ricrescendo mi fanno il solletico ed è una sensazione piacevolissima. Ormai mi sono abituata a vederlo con quelle bende sulla testa, le cicatrici, i tutori, i gessi, tutti i segni dell’incidente e delle operazioni subite. Non riesco però ad abituarmi all’idea che sia tutta colpa mia. Nessuno mi ha mai attribuito una qualche responsabilità. Eppure continuo a pensare che non sia così. 
Tre mesi fa Bruno è uscito di casa nella notte. Stava venendo a cercare me. Si è messo a correre sulla strada principale al buio, a un certo punto deve aver attraversato all’improvviso e poi… stridore di freni, fari abbaglianti, un tonfo sordo, il suo corpo riverso per terra, grida strozzate. Una macchina l’ha travolto, facendogli fare un salto di venti metri sull’asfalto. 
Quell’immagine mi fa soffocare, mi brucia i polmoni, mi spezza il cuore.
È stato in coma per quasi un mese, ha subito ripetute operazioni alla testa per ridurre l’ematoma. Ha riportato fratture multiple al bacino, alle costole e agli arti inferiori e, adesso, dopo che si è finalmente ripreso e che le fratture stanno guarendo, soffre di afasia post traumatica. Non sappiamo se tornerà a parlare. La sua memoria è a posto, anche la vista e l’udito lo sono, ma la parola non vuole tornare. Nemmeno i dottori capiscono se il mutismo sia una conseguenza del trauma al cervello oppure dello shock.
Bruno da qualche settimana non è più solo nella stanza. Le sue condizioni sono buone quindi può dividere la camera con altri bambini. Quelle facce minute, pulite, sono fatte per sorridere alla vita, non per soffrire. 
Paolino si avvicina trascinando il carrello con la flebo. Occhi incavati e scuri, pelle bianchissima solcata da certi capillari arrossati che sembrano una ragnatela violacea sulle guance scarne. È al suo terzo ciclo di chemioterapia, combatte contro il linfoma di Hodgkin.
«Hai portato il giornale?» mi chiede, con quella vocina fioca che a volte fatico a sentire.
«Certo, eccolo!»
Lo prende, lo mette davanti a Bruno e lo sfoglia con lui. Vanno immediatamente alla pagina sportiva. Bruno la guarda con occhi famelici. So cosa sta cercando e non posso biasimarlo. La sua passione per il calcio e l’amore per la sua squadra del cuore sono rimasti immutati, sono io quella delusa da quel mondo, non certo lui.
Così picchietta ripetutamente sul giornale, come a dire “Guarda, guarda chi ha segnato!” 
Io annuisco stancamente senza dargli soddisfazione. Lo so bene chi ha segnato, ma la cosa non mi riguarda più ormai.
Una raffica di notifiche mi costringe ad aprire il cellulare. Dario mi manda foto in continuazione. Milano mi appare in tutta la sua maestosa bellezza e il mio cuore si stringe un po’ di più. Lui ce l’ha fatta. Se n’è andato a rincorrere il suo sogno e non si è voltato indietro, io sono rimasta qui a pagare il conto che la vita ha deciso di presentarmi. Sono stata vigliacca? O davvero non c’era altro modo? Mi viene in mente di colpo la storia dell’elefante e della catena. Quando l’elefante è piccolo, viene legato a una grossa catena e a un piccolo paletto. Prova e riprova a sganciarsi, ma non ci riesce. Col tempo l’elefante cresce. La catena è la stessa e anche il paletto. Essendo più grande e grosso, l’elefante potrebbe strappare il piccolo paletto. Ma lui, ancorato al passato, ogni volta che gli viene messa la catena, non prova neanche a liberarsi. Non scappa perché crede di non poterlo fare. Sono anch’io così? Ancorata al passato? 
Cerco di partecipare alla felicità di Dario, ma non riesco. I nostri progetti sono ormai un’immagine sbiadita, una foto sciupata dal tempo e dal dolore. 
- È arrivato? mi chiede nell’ennesimo messaggio.
- Non ancora rispondo.
Sa bene chi sto aspettando. Nonostante ci dividano centinaia di chilometri, Dario continua ad essere la persona a me più vicina. Sa cosa ho passato. 

D’un tratto, sentiamo dei sonagli. Rumori di passi nel corridoio. Paolino sgrana gli occhi e corre verso il suo letto, trascinando il carrello. Bruno mette via il giornale e mi fa cenno di coprirlo con il lenzuolo. Il mio cuore comincia a battere all’impazzata, peggio di quello di quei due bambini malati. Vorrei trovarmi un lenzuolo e nascondermi anch’io come fanno loro, ma ho giurato a me stessa che non mi sarei nascosta mai più da nessuno. Quindi rimango lì, in piedi in mezzo alla stanza, con le guance arrossate e quelle farfalle nello stomaco che non credevo sarebbero mai tornate a svolazzare.
La camera di mio fratello è l’ultima del corridoio. Sentiamo grida e risate di bambini che mano a mano vengono stanati nei loro lettini. Il rumore cresce e quell’ondata di allegria si avvicina. Finché, tra un tintinnio di campanelli e un coro di risate infantili, compare. Un pagliaccio bellissimo, colorato, dolce, arruffato, sdrucito e soprattutto tenero.
È arrivato il Tenero Safi.
Entra guardingo, seguito da una scia di bambini raccolti dalle altre stanze. Spia sotto i letti, dentro gli armadietti, persino in bagno e fa quelle buffe facce da mimo un po’ corrucciato, un po’ sorpreso. Scuote la testa e finge di pensare a dove possano trovarsi Bruno e Paolino e poi, con un colpo secco, tira via le coperte e li scova. Mio fratello con metà del corpo ricoperta dai gessi e l’altro mimetizzato con il lenzuolo dato il suo pallore. Ma entrambi esplodono in una risata che mi nutre il cuore. E poi quell’adorabile pagliaccio, come sempre, si volta verso di me e fa un inchino. Oggi ha una salopette di raso rosso con tante toppe colorate e sopra, una targhetta col suo nome e un grande colletto arlecchino. Una parrucca riccia e arancione fuoriesce da un ridicolo cilindro mezzo rotto. Il viso bianco perfettamente truccato, occhi dipinti da matite e ombretti con lenti arcobaleno che chissà dove ha trovato. Stelle glitterate sulle guance, un naso a pomodoro e un sorriso smagliante, disegnato sul volto con tanto di rossetto e matita. 
Allunga una mano verso di me e mi sfiora dolcemente la guancia con i guanti gialli canarino. Poi la ritrae e, da dietro il mio orecchio, sfila un tulipano giallo.
«OHHH!» esclamano in coro i bambini. Lo spettacolo del Tenero Safi comincia sempre così, tra stupore e meraviglia e va avanti per un’ora. Un po’ mimo e un po’ pagliaccio, giocoliere e musicista, mago e illusionista, Safi regala a quei bambini malati una pausa di pura beatitudine. Dona gioia, divertimento, risate e spensieratezza e io, spettatrice assidua dei suoi teatrini, ne prendo un po’ anche per me stessa.
Lo ammetto. Mi sono presa una cotta per un pagliaccio. Il che è divertente considerando che non so nemmeno che faccia abbia davvero, né come si chiami. Questa è la ciliegina sulla torta, il gran finale di Lidia Orlandi. 
Safi non parla, si fa capire con i gesti, proprio come Bruno. Ha un fascino delicato, è un pagliaccio galante, sempre cordiale con le signore e con me in particolar modo. Qui lo adorano tutti, non soltanto io. Le infermiere mettono anche qualche materassino in corridoio per le sue acrobazie. Ogni tanto dal cilindro tira fuori un coniglio, oppure un colombo. Animaletti che puntualmente scappano per l’ospedale e i bambini li rincorrono tra le corsie. Safi è uno scacciapensieri, un fabbricante di allegria.
Quando l’ho visto per la prima volta, Bruno era in coma e io non ho partecipato alla festa, ero troppo sconvolta. Lui però, alla fine del suo spettacolo, si è avvicinato e mi ha regalato il primo origami, un cigno.
All’interno aveva nascosto poche parole…

Il cigno è una S che scivola sui laghi…
E quando nel dolor da sola vaghi,
lascia che la S di Speranza
riprenda lentamente la sua danza.
“S” è di Safi la lettera iniziale
e se cerchi di stare meno male,
concediti un momento di allegria,
sfruttando la mia dolce compagnia.

Col passare delle settimane, la sua presenza di lunedì è diventata una costante e, adesso, mi sembra quasi un appuntamento. O, almeno, io lo aspetto con lo stesso struggimento e la stessa impazienza. Colleziono i suoi origami, con quelle frasi dolci nascoste all’interno e i fiori che di volta in volta estrae dai miei capelli. Non mi sono mai chiesta che aspetto abbia veramente né quale sia la sua età. Sembra giovane, è alto e forte, mi piace come si muove, come cammina, come reclina la testa per ascoltarmi. Mi piace quello che fa e quello che rappresenta e non m’interessa come sia il suo viso. Se anche fosse brutto o deforme lo amerei lo stesso. Comunque avevo tentato di informarmi sulla sua vera identità, ma nemmeno la caposala la conosce. Lo manda un’associazione di volontariato che collabora con l’ospedale.
Oggi sono più eccitata del solito, devo dargli una risposta. Nell’ultimo origami ha nascosto un invito. 

Quale sarebbe la tua prima reazione
se un pagliaccio ti invitasse a colazione?
Da te potrei lasciarmi smascherare
col rischio di vederti poi scappare.
Di una cosa però puoi star tranquilla:
anche se non scatta la scintilla,
ti regalerò per sempre gentilezza
e al tuo cuor concederò la mia carezza.

Mi sono chiesta per tutta la settimana se è davvero così strano accettare un appuntamento da un pagliaccio. La gente si dà appuntamenti online, fidandosi di foto postate che sono sicuramente le più ingannevoli e non veritiere, quindi vanno più a scatola chiusa di me. Il Tenero Safi non mi farebbe mai del male, non ne sembra capace. Mi sono anche domandata cosa penserebbe chi mi conosce se sapesse che vorrei fare una cosa del genere. Mi prenderebbero per pazza? Ma poi alla fine ho davvero bisogno di una giustificazione per vederlo? Voglio tanto dirgli di sì, ma ho una ferita nel cuore ancora aperta e ho una paura tremenda di tornare a soffrire. Se non riesco a perdonare chi mi ha fatto male, non sarò libera di aprire la mia anima a qualcun altro. Sono mesi che ci provo, ma non riesco e il risultato è che il passato rimane lì a guastare ogni giornata e ogni momento felice che potrei di nuovo assaporare. Poi ripenso all’elefante incatenato al suo paletto. Guardo il bigliettino di Safi su cui ho scritto la mia risposta e mi apparto nel corridoio. Mi prendo un ultimo momento per pensare e per dire veramente addio ad Enea Fortis.

Specifiche

  • Genere: Romantico
  • Collana: R come Romance
  • Formato: 14x20 cm
  • Pagine: 200
  • ISBN: 978-88-9347-245-6
  • Anno pubblicazione: 2022
  • Prezzo copertina:: 16

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