Australia Un giro in bicicletta
In questo libro l’autore ci porta con lui lungo i sei mesi pedalati in Australia, tra maggio e ottobre 2018, poco prima dei disastrosi incendi che hanno colpito quei territori; parte di un viaggio più lungo che lo ha portato anche in Nuova Zelanda e Borneo fino a giugno 2019.
La Natura rigogliosa e prepotente, la vita degli Aborigeni, la quotidianità dei tanti personaggi incontrati lungo la via, vengono descritti con essenzialità e sensibilità. Toccanti le parole con cui descrive i tramonti e le notti stellate trascorse accampandosi nella sconfinata solitudine del bush australiano.
La fatica incontrata nei lunghi e difficili percorsi, scelti alla ricerca della vera Australia, lontano dai soliti cliché turistici, è la protagonista principale di questo racconto e ben descrive lo spirito con cui l’autore affronta le sue avventure. Gli spunti autoironici e le considerazioni genuine fanno da contraltare
Leggi il primo capitoloCairns – Cape York – Cairns
La sera del 2 maggio atterro a Cairns. L’aeroporto, ormai deserto per l’ultimo volo, pare un supermercato in chiusura. Doganieri e personale, vogliosi di andare a casa, semplificano le procedure. Infilo il passaporto in una macchinetta e basta quello per entrare in Australia. Mi aspettavo un interrogatorio di terzo grado. Un cenno del doganiere è l’ulteriore conferma che posso passare.
Attendo il bagaglio accanto al nastro trasportatore, nel contempo tengo d’occhio la porta per pacchi voluminosi dalla quale dovrebbe uscire la bicicletta. Velocemente tutti raccattano le loro cose. Immobile, fisso il nastro trasportatore che gira a vuoto finché non si ferma. Anche la porta si chiude definitivamente dopo avere fatto passare due tavole da surf.
È un buffo inizio di viaggio!
Devo compilare un modulo e lasciare un indirizzo per la consegna delle mie cose. Non ho nessun indirizzo. La ragazza dell’ufficio bagagli smarriti mi scrive il nome di un backpackers, un ostello australiano.
«Quando arrivano te li portiamo a questo indirizzo».
Esco dall’aeroporto ed entro ufficialmente in Australia. Pioviggina, ma respiro aria calda.
Un tassista di origini indiane mi chiama e, preventivamente avvertito, sa già dove accompagnarmi.
L’ostello è un formicaio di giovanissimi. Sono il loro opposto e mi sento a disagio, ma devo per forza restare. Una delle ragazze della reception mi chiede dov’è il mio zaino. «Questo è tutto quello che ho» e gli mostro il bauletto. «Viaggi leggero, molto leggero», sorride. Le racconto l’accaduto e le chiedo se può indirizzarmi in un negozio per comprare asciugamano, spazzolino e dentifricio, sapone e una maglietta. Mi sento zozzo; e lo sono. Magari puzzo pure.
Mi consiglia un negozio dove niente costa più di cinque dollari australiani. Con nove dollari in tutto mi faccio il corredo e ritorno velocemente all’ostello.
Dopo la doccia, nonostante la stanchezza, la notte in arrivo e nessuna idea di com’è disposta la città, esco per strada. Perso, senza cercare di non esserlo, vengo catturato da una musica uscire da un pub. Faccio appena in tempo a scolarmi una pinta di birra ghiacciata, ascoltare un paio di pezzi blues, prima che il locale chiuda. L’Australia manda a letto presto i suoi abitanti, o almeno ci prova. D’altronde anch’io necessito di un letto e quando lo raggiungo mi ci butto a peso morto per tutta una tirata fino al mattino dopo.
Non ho nessun aereo da perdere.
Alle otto del mattino sono in strada. Solo ora, riposato e vigile, mi rendo veramente conto di essere in Australia.
C’è il sole, fa caldo, sorrido.
Scorgo un piccolo locale, un’unica stanza dove marito e moglie servono la tipica colazione a base di uova, pancetta e pane tostato imburrato. Non resisto ed entro. «How’s it going, mate?» è il saluto della donna che serve ai pochi tavoli. Dietro a un basso divisorio c’è un uomo con bandana a tener raccolti i lunghi capelli e ad arginare il colante sudore scatenato dalla piastra rovente, sulla quale sfrigolano le uova e la pancetta. Un tavolo è occupato da tre lavoratori in sgargianti tute arancioni e grossi scarponi slacciati. Uno di loro indossa un vissuto, originale cappello australiano a tesa larga, marcato dai sali delle sudate. Gli altri due, seguendo la moda, portano cappelli dalla lunga e rigida visiera con scritte pubblicitarie. Questi cappelli non mi piacciono; ma devo essere l’unico, visto quanti ce ne sono in giro. La signora mi porta una tazzona di caffè con latte. Adoro questo liquido caldo scendere nelle viscere, le quali, borbottando, allegramente si mettono in movimento. È una mia necessità mattutina quella di bere molto. La donna mi chiede da dove vengo e qual è la mia destinazione. Come spesso accade, i presenti fanno meraviglie dell’Italia. Ma sembrano più sorpresi quando dico che voglio raggiungere la cima della penisola di Cape York, “The Tip” come viene comunemente chiamata. Uno dei tre lavoratori mi chiede che tipo di fuoristrada uso. «Vado in bicicletta» gli rispondo, già preparato agli sconsolati scuotimenti di testa. «Inoltre vorrei tentare la Old Telegrah Track» aggiungo, sperando di ottenere utili informazioni. Ma non faccio altro che aumentare i loro convinti no con la testa. Come supponevo cominciano a elencare una sfilza di catastrofi alle quali non sopravvivrò: serpenti, coccodrilli, ragni, insetti velenosi, fiumi turbolenti, temporali, fulmini e saette. È un ritornello già sentito a diverse latitudini e che si ripete uguale. Anzi no, qui mancano gli uomini cattivi e non credo se ne siano dimenticati. Mi scollego dalla nefasta discussione quando la signora mi porta un piatto colmo di pancetta, uova strapazzate e grosse fette di pane marrone imburrate. Questa è vera pancetta, altro che quelle striscioline secche e striminzite che propinano in America o in Inghilterra. Fino a sera non sentirò appetito. Per i quattro giorni che resterò a Cairns, tutte le mattine sarò seduto a uno dei tavoli di questo ristorantino aperto fino alle due del pomeriggio.
Ho difficoltà nel capire gli australiani e tradurre i loro particolari modi di dire. Quando poi tocca a me parlare comincia la lotta con la memoria. Ho sempre le parole sulla punta della lingua ma non vogliono uscire, inceppato anche con i vocaboli più semplici. Devo riattivare questa benedetta memoria assopitasi per assenza di esercizio, per l’ormai scarso desiderio di conversare.
Cairns è un miscuglio di turisti di tutte le età, giunti da tutto il mondo. Li accomunano le bermuda, le magliette colorate e le infradito. I turisti non salutano, i locali lo fanno tutti, fosse solo un cenno con il movimento del capo. Mi sento bene e carico di energia. Se avessi la bicicletta partirei oggi stesso. Purtroppo non è arrivata neppure oggi. Mi toccherà aspettare altri tre giorni. Di certo non mi annoio. Acquisto il necessario per completare l’equipaggiamento. Vago a caso sotto un sole che strina la pelle costringendomi, per modo di dire, a prolungate, forzate soste nei pub per un boccale di Cider Mercury alla spina. Un toccasana per un corpo sempre mezzo disidratato. La sera continuo la reidratazione in locali con musica live. Il mio pub preferito ha un bancone lungo dieci metri a forma di coccodrillo. Anche se è solo legno scolpito fa impressione, tanto da farmi ordinare la birra dalla parte della coda. La giovane barista si crede bella, per me lo è ancora di più, e spilla birre con maestria. Mi chiede da dove vengo. «I love Italy» risponde. «I love Australia» le contro rispondo. Mi strizza l’occhio, un tic nervoso acquisito dal dovere a catena. Due vecchietti rinsecchiti, dal sorrisino beffardo stampato in volto, giocano a biliardo. L’età ha ingessato i loro movimenti e la partita langue al rallentatore. Dopo ogni colpo di stecca hanno tempo per prendersi in giro. Peccato non riuscire ad afferrare tutte le loro battute. Mi ricordano indimenticati personaggi del mio paese di tanti anni fa. Le loro esilaranti partite a boccette o a stecca venivano sempre condite con argute battute che ancora oggi ci fanno sorridere. Quella scanzonata simpatia paesana era linfa per il buon vivere.
Salgono sul palco tre musicisti. Un ragazzo e una coppia che nel mio immaginario identifico come figlio con i genitori. Il probabile padre alla batteria, la probabile madre al basso e il ragazzo alla chitarra che, di mancino, le cava note con maestria. Ha pure una voce notevole. Blues e birra; e i ricordi riaffiorano dal passato. Altro blues e ancora birra; e i ricordi tracimano negli sconfinati campi della nostalgia. Meglio non bere se si vuole tenere chiuse delle porte. Ci pensa poi la musica a scardinarle.
Sul palco si alternano altri musicisti, anche un batterista aborigeno. Sono tutti amici. Un uomo silente, con una birra appoggiata sul dorso del ligneo alligatore, estrae dalla tasca posteriore dei jeans un’armonica a bocca. Inizia a soffiarci dentro accompagnando un pezzo blues, prima con studiata professionalità poi, fatto il riscaldamento, dimostrando tutta la sua abilità; e per una decina di minuti sarà al centro dell’attenzione con una performance notevole.
Il pub chiude. Di birre ne ho bevute parecchie, ma mi sento bene, leggero, leggero come il mio portafoglio.
Cammino nella notte calda. Un gruppo di ragazzi inglesi, storditi dall’alcol, fa casino. Urlano brutte parole dietro ad un aborigeno che passa. Quello li osserva e continua indifferente nel suo vagabondare. Avrà dovuto sopportare di peggio.
È capitato subito dopo anche a me, nell’ascensore dell’ostello, di essere apostrofato con disprezzo, sempre da giovani inglesi, per la mia età e per i capelli lunghi, sentendomi dire che quell’ostello non era un posto per vecchi. Incredulo, non ho reagito, e per la mia salute è stato meglio così. Lo ha fatto una ragazza con energia, lasciandoli fuori dall’ascensore e scusandosi per loro. Mi è sempre più netta la differenza tra femmine e maschi.
Il fatto dell’ascensore mi ha molto rattristato. Se solo avessi saputo che questo ostello era un covo di adolescenti non ci sarei mai venuto. Intanto la discoteca sottostante ribolle di una indefinibile musica sparata a tutto volume, condita da grida, sonore risate, schiamazzi. Si divertono e io un po’ li invidio. Vorrei essere giovane e scatenarmi là in mezzo con loro. Ma mi tocca infilare i tappi nelle orecchie e pensare ad altro.
La sera del 4 maggio, quando già cominciavo a pensare male, arriva un furgoncino con la bicicletta e il bagaglio. Senza perdere tempo inizio a montare la mia vecchia amica chiedendole dov’è stata in questi giorni.
«Non dirmi che sei tornata di nuovo a Bologna». A volte penso che non ne può più di me, tanto da cercare la fuga. Ho pensato di concederle un meritato riposo, ma la sua straordinaria affidabilità e quell’affetto che mi lega a quello che tutti pensano sia solo un pezzo di ferro, mi costringe a obbligarla a continuare la nostra storia insieme.
Domenica 6 maggio. Cercando di fare meno rumore possibile per non disturbare i nuovi arrivati, scendo dabbasso dove ho lasciato la bicicletta. La carico in fretta e furia e scappo da quel dormitorio non consono al mio stato attuale.
Solita colazione nel solito ristorante. Il cuoco abbandona il suo regno per dare un’occhiata alla bicicletta carica. La osserva per bene, poi mi fissa e, come previsto, torna ai fornelli scuotendo la testa.
Rifocillato di cibo e di consigli funesti, salgo in sella per iniziare questo viaggio che si ostinava a non decollare.
Dopo quattro giorni di cielo terso e sole spacca-teste, oggi lassù è un pascolo di ovattate nuvole rotolanti, sospinte da un vento giocherellone che, anarchico, non ha ancora scelto una direzione precisa verso cui soffiare. Una breve, leggera pioggerella fa da damigella d’onore a questo inizio d’avventura.
Strada molto ampia, poi una decina di chilometri di pista ciclabile. Cerco di abituarmi alla nuova sella anti prostatite. Ho dovuto sostituire la gloriosa Brooks Conquest, sulla quale non riuscivo più a starci e che, secondo addetti ai lavori, avrebbe potuto danneggiarmi ‘là sotto’. E io, a quello che c’è ‘là sotto’, ancora ci tengo.
L’altra novità è la fastidiosa scocciatura del caschetto che, seppur non obbligatorio, qui tutti indossano.
Iniziano dei rilievi e la strada sulla costa si restringe facendosi tortuosa. Ho poco spazio e le numerose autovetture in gita domenicale mi stanno troppo vicine. Altre sono costrette a sostare dietro di me quando ne incrociano un’altra. Il mare è grigio, tira vento e pioviggina. Eppure intere famiglie, al riparo di sventolanti ombrelloni e gazebo, resistono in riva al mare.
Raggiungo Port Douglas sfinito. Settantaquattro chilometri senza allenamento e con la solita trippetta iniziale da smaltire, sono più che sufficienti. Noto un backpackers con campeggio nel folto della foresta lussureggiante. La maggior parte delle tende sembrano piazzate lì da tempo. Sono le temporanee sistemazioni dei giovani lavoratori stranieri. Non è un campeggio per turisti, quello è più avanti. Cedendo alla mia insistenza, perché mi piace il posto, mi lasciano montare la tenda per una notte. Dopo una doccia calda che lenisce in parte l’affiorare di dolori sparsi per tutto il corpo, entro nella cucina dell’ostello per prepararmi una scodella di noodles, spaghettini in brodo istantanei. Ragazzi e ragazze sono impegnati ai fornelli. Due tipe conversano sottovoce in spagnolo. Un’altra versa della pasta Barilla nell’acqua bollente. Potrebbe essere italiana. Dopo un tè mi ritiro, sento il bisogno di allungarmi sul materassino. Nell’intimità della tenda mi rendo conto di non sopportare più le camerate degli ostelli, un tempo cercate volutamente.
Tutti vanno a dormire presto. Qui, niente baldorie.
Dolce è il risveglio al canto gioioso degli uccelli.
Con circospezione rimetto in funzione il corpo.
Mi concedo un giro per Port Douglas, un tempo tranquillo villaggio di pescatori, oggi centro turistico in apparenza non troppo adatto alle mie tasche. Negozi, ristoranti, bar si susseguono sulla via principale. Numerose agenzie propinano tour con immersioni nella barriera corallina a un’ora di barca. Luccicanti yacht di lusso sono ormeggiati nel porto della Reef Marina. Sosto all’ombra di palme a osservare l’attraente spiaggia di Four Mile Beach. Poche persone in giro. Un ragazzo biondo, abbronzato e muscoloso, lo stereotipo di queste spiagge, mi raggiunge incuriosito dalla bicicletta carica. Big Jim, come l’ho battezzato, ha in programma un lungo viaggio in bicicletta in Europa. Dopo avere parlato di bici, gli chiedo della barriera corallina, dei pesciolini che ci nuotano dentro, tanto simpatici da stecchirti con il loro veleno in pochi minuti, e altri così vogliosi di masticarti senza nemmeno chiedersi se sei tignoso o meno. Voglio sapere delle famigerate meduse, dei coccodrilli marini. Big Jim, per passione e per lavoro, è spesso a mollo e dice di temere molto le meduse, meno gli alligatori, più facili da avvistare. Da ottobre a maggio queste acque sono infestate dalle letali cubo meduse o meduse a scatola e anche dalle piccole ma altrettanto velenose meduse Irukandji. Nelle spiagge frequentate ci sono cartelli segnaletici che informano quando poter entrare in acqua. Porzioni di mare sono state protette da fitte reti, ma non sono una sicurezza certa, poiché le minute Irukandji a volte riescono a infilarsi. Il ragazzo mi avverte che, risalendo la penisola di York seguendo la vecchia pista del telegrafo, sarò costretto a guadare molti fiumi infestati da coccodrilli. Mi consiglia di non campeggiare vicino ai corsi d’acqua, di non fare il bagno e di fare una attenta ricognizione prima di attraversarli. Conclude affermando che gli attacchi mortali sono rari, ma sono anche rari quelli che vanno lassù in bicicletta da soli.
Esco da Port Douglas con poca voglia di mare.
Ero intenzionato a visitare Cape Tribulation ma, appena incrocio la deviazione che si allontana dalla caotica strada della costa, la seguo senza tentennare e sgombro da ripensamenti. Mi sono ripromesso di fare solo quello che sento e non quello che dovrei. Il tempo rimasto è poco.
Il traffico si è come eclissato. Mi trovo solitario a pedalare tra estesi campi di canna da zucchero, sezionati dagli stretti binari dei ridotti vagoni che portano fuori dai campi la canna raccolta.
Inizia una salita di otto chilometri. Ci impiego, volutamente, un’eternità. Ricorro a molte soste all’ombra della foresta, sempre intenzionata a riprendersi la strada. In cima lo sguardo ammira una valle coperta da una folta boscaglia. Convinto di proseguire in discesa, mi tocca, invece, un’antipatica serie di scollinamenti.
Ecco l’imbocco della via che porta a nord, verso quella lingua di terra che tante volte ho desiderato visitare. Bastava che buttassi l’occhio su una cartina dell’Australia che subito lo sguardo finiva su quella porzione di territorio appartato lassù in cima.
A sera raggiungo Mount Carabine. Nel mio immaginario doveva essere un piccolo paese. Invece, altro non è che un distributore e un pub, più un campeggio in una fattoria in cima alla collina. Pianto la tenda poi scendo al pub per una birra. Unico cliente, rispondo alle domande della bionda barista, poi mi siedo fuori ed entro nell’immobilità e nel silenzio di quel luogo. Resto una mezz’ora. Nessun anima si è fatta viva. Quando riporto dentro il bicchiere, la donna mi avverte che più tardi arriveranno i farmers dalle fattorie sparse nella zona. Un invito a tornare.
Di notte vengo assalito da crampi dolorosissimi ad entrambe le gambe. Un dolore persistente, terribile, che non voleva andarsene. Ero sul punto di chiedere aiuto. Poi i muscoli hanno cominciato a sciogliersi, a rilassarsi, ma al minimo movimento brusco ecco che partiva l’avviso di crampo in arrivo. Ho dormito cercando di muovermi il meno possibile.
Il gradevole tepore mattutino mette di buon umore. Massaggio a lungo le gambe. Dopo avere smontato il campo e fatto qualche esercizio di allungamenti, con la borsa del cibo vado nella cucina ricavata sotto una tettoia. Due coppie osservano, credo inorridite, la mia colazione a base di spaghetti cinesi in brodo piccantissimo, noci pecan, e wafers chimicamente colorati, così dolci da schernire i denti, inzuppati nel tè indiano al latte e zenzero. Non è la mia colazione tipo, è quello che è rimasto nella borsa dispensa.
Tutte le calorie buttate nel motore le brucio seduta stante affrontando un’interminabile salita del dieci per cento.
L’unica nuvola, smarritasi nell’azzurro, sgancia uno stranissimo piovasco di una decina di minuti che ho accolto come una benedizione. Poi sole, caldo e tanto sudore.
Primo canguro avvistato e poco dopo anche un dingo. Un serpente, ucciso sulla via, mi rammenta di prestare attenzione a dove metto i piedi.
In cima all’ennesima collina trovo la Roadhouse di Palmer River fornita di un rustico campeggio, un pub con ristorante e una pompa di benzina, che a me non interessa. La meta pensata questa mattina era Lakeland, venti chilometri più avanti. La scarsità di cibo e il fuori forma, mi convincono a restare. Sono all’inizio, devo rodarmi.
Da un camper esce una signora. Viene a presentarsi. Viaggia con il marito, entrambi pensionati di Melbourne. Si muovono alla ricerca del clima migliore. Parla da insegnante, perciò la capisco molto bene. Le racconto della mia idea di raggiungere “The Tip”. Lei non si perde nelle solite raccomandazioni, ma insiste molto perché io indossi camicia o maglietta a maniche lunghe, perché porti sempre un cappello sotto il casco e perché usi creme solari di buona qualità.
«Il sole è vita, è gioia, ma può essere anche letale». In effetti, nonostante la crema solare, ho le gambe e le braccia bruciate, tanto che a metà pomeriggio sono stato costretto a infilarmi i pantaloni lunghi. Le racconto, tra l’altro, dei terribili crampi notturni. Mi consiglia di mangiare banane e di bere molto.
Dopo una tonificante doccia corro al ristorante. Mi pappo un enorme hamburger con bistecca e verdura e bevo due birre. Una terza birra me la offrono due tipi del posto interessati alla nostra agricoltura; che gli racconto, molto diversa dalla loro, che invece è basata, più che altro, sulla produzione di foraggio per gli allevamenti.
Contento, strascicando le gambe legnose, ritorno alla tenda. Attaccata al manubrio della bicicletta c’è una sportina di plastica. Dentro ci trovo una mela, una lattina di fagioli, delle caramelle e una barattolino di pillole al magnesio, toccasana per i crampi. Non ho dubbi: è un gentile gesto della signora di Melbourne. Nel camper le luci sono spente. La ringrazierò domani mattina.
Ancora crampi notturni, ancora domande sul mio futuro da ciclo-viaggiatore. Sorvolo. Passerà.
Il camper non c’è più. Sono partiti molto presto. Suppongo per evitare il caldo cocente di metà giornata.
Un fuggevole cenno di diniego segna il passaggio dal comodo asfalto a una pista a tratti troppo soffice. Poche pedalate di adattamento e la smorfia si trasforma in un ghigno di piacere. Sono nel mondo che vado cercando, quello che impegna il corpo e mette alla prova la volontà, l’unica parte di me che pare essere rimasta giovane.
Caldo, sudore. Mosche, zanzare. Un paio di serpenti di colore diverso giacciono morti sulla pista. I loro fratelli sono in agguato, nascosti in mezzo a quell’erba anemica. I piccoli canguri Wallaby hanno un aspetto così dolce e tenero da rendere meno ostico l’ambiente circostante.
La sera del 10 maggio mi fermo nella isolata e spartana Roadhouse di Hann River. Ci lavora una ragazza italiana, una siciliana mai stata in Italia, ma che ha mantenuto il passaporto italiano. Evidentemente è possibile avere due passaporti. Sta allattando con un biberon un piccolo canguro che tiene in braccio avvolto in una coperta. Lo ha raccolto dal marsupio della madre uccisa sulla strada. Quando sarà svezzato lo lascerà libero come ha già fatto con altri canguri che continuano a gironzolare qua attorno e, di tanto in tanto, vengono a farle visita per farsi accarezzare. Ha allevato pure degli emù. Uno di questi sta curiosando attorno alla mia tenda. Alla donna piacerebbe molto visitare la Sicilia che conosce attraverso i libri e le fotografie, ma, per ora, le mancano i soldi. Si allontana parlando al canguro come fosse un figlio. Torna con una birra per me. Lei deve sempre accudire qualcuno. «Qui è regola non farsi mai mancare il bere e la birra, la sera, è un toccasana». Sono d’accordo. L’assaporo lentamente. Sento il silenzio del luogo, sfregiato appena dal grido di un uccello notturno.
Un’immobilità che tira le briglia del tempo.
Ho dormito di un sonno profondo, vegliato da vaganti animali, anime della notte. Solo qualche piccolo strappo di crampi che le pillole della santa donna si stanno impegnando a domare.
La ragazza australiana con sangue siculo nelle vene sta irrigando delle piante. Il clima è perfetto, meglio goderselo perché fra poche ore sarà tutt’altra musica.
Pancetta fritta e uova strapazzate riempiono lo stomaco, con in aggiunta due tazze di caffè. La ragazza si siede al mio tavolo mentre dà il biberon al piccolo canguro. Una scena d’amore che fa partire bene la giornata.
Sopraggiunge una masnada di pescatori su due pick up con due barche al traino. Sono uno diverso dall’altro. Uno è alto, l’altro è basso; c’è chi è gonfio di grasso, un paio sembrano anoressici. Poi un misto di barbe, capelli lunghi, rasati. Tutti usciti da stampi diversi. Solo i luridi abiti trasandati li accomunano. Chissà dove avranno passato la notte. Salutano con un cenno del capo. Sembrano esausti tanto da non conversare nemmeno tra di loro. Quando servono loro le colazioni, si avventano su di esse fagocitando il cibo come fossero a digiuno da giorni.
Saluto la ragazza, alla quale non ho chiesto il nome, ma la ricorderò per un bel po’. Accarezzo il canguro orfano e ritorno in sella, a raccattare altre storie.
Lo sterrato è reso faticoso da ripetute macchie di sabbia. Pressando i pedali con tutto il mio peso, riesco a stare in sella. Posso zigzagare alla ricerca della traccia migliore senza timore di essere investito.
Giungo alla Roadhouse di Musgrave, un tempo importante stazione del telegrafo. Oggi è un’oasi vitale per i viandanti.
I prezzi sono raddoppiati in confronto ad Hann River, lontana appena una settantina di chilometri. Mangio un panino e faccio scorta d’acqua.
«Safe journey» è l’augurio della giovane ragazza asiatica, quando le dico che non resterò per la notte.
Dopo solo un chilometro avrei già voglia di tornare indietro. Una spanna di sabbia copre per intero la piatta pista, costringendomi a smontare di sella e a spingere con tutte le mie forze. Se questo è il percorso che ho da fare, sono spacciato. Ragionando, mi convinco che cambierà in meglio da un momento all’altro. Intanto cala la sera e ho percorso solo otto chilometri in quasi due ore.
Trovo rifugio dietro a un laghetto artificiale, abitato da starnazzanti anatre e visitato da uccelli assetati come lo sono io. Nella notte odo gorgoglii, movimenti d’acqua, sbatter d’ali come per fuggire. E se ci fosse qualche coccodrillo? In fondo il fiume è nei paraggi. Mi prende un po’ d’insicurezza. Ci pensa il sonno ad azzerare i timori.
Mi sveglia il grido disperato di un’anatra in un forte agitare d’acqua. Mi convinco che un coccodrillo si è pappato l’anatra. Esco a fare pipì. La notte è scura e lugubre.
Ho optato per un fornello ad alcol invece di quello a gas, immaginando, dopo avere preso informazioni, che avrei avuto dei problemi per trovare le bombolette di ricambio. Purtroppo l’alcol non brucia bene, sembra annacquato. Impiega troppo tempo per fare bollire l’acqua. Inoltre il pentolino si sporca di nero e se non faccio attenzione, mi riduco le mani come quelle di un carbonaio.
Sulla strada è una lotta. Molto spesso mi trovo costretto a spingere la bicicletta per avanzare attraverso tratti di sabbia pura. Il lamento di un motore, pure lui in affanno, è in avvicinamento. Un grintoso quattro per quattro, attrezzato per andare ovunque, affiora da una gobba della strada. Si ferma. Scendono due uomini di mezza età, mentre nell’abitacolo rimangono una donna e un bellissimo cane marrone di nome Arlecchino. Dicono di arrivare da “The Tip”, dalla cima.
«La Old Telegraph Track può essere complicata da fare in bicicletta in solitaria. Ci sono molti guadi e alcuni fiumi sono ancora gonfi d’acqua». Questo è quello che mi dice il tipo dai capelli lisci fino alle spalle, fuoriusciti da un cappello di feltro macchiato di sudore. Non mi meraviglierei se fossero cappelli nuovi appositamente sporcati e invecchiati. Nonostante la divisa da boutique da rude australiano dell’outback, nella vita quotidiana, per modi, gentilezza e anche aspetto, me lo immagino come un critico d’arte, un accademico o giù di lì. Rafforza questa mia idea l’eleganza della donna, vestita di un leggero abito bianco, in una ostentata curata bellezza. Qual è il segreto delle donne per mantenere tanta linda freschezza anche in un ambiente selvaggio come questo. Il regale Arlecchino, di stazza notevole e dal pelo lucido, è agitato, fiutando odori di animali selvatici sconosciuti. Tremolii e guaiti sono la sua voce che implora di essere lasciato libero di uscire. Il divieto giunge da un amorevole abbraccio della donna. È da secoli che io non ricevo tanto affetto. Forse bisogna meritarselo.
Mi riempiono le bottiglie d’acqua. Se ne vanno senza esserci scambiati i nomi e le nazionalità. Non era necessario.
Trovo un buon posto per la notte. Non ho la possibilità di lavarmi. L’acqua ha un uso ben più vitale. Poi devo abituarmi ai nuovi odori, ad essere appiccicaticcio. Nudo, al rallentatore, mi stendo sul materassino. Non riesco ad allungare completamente le gambe. Ho come l’impressione che i tendini si siano accorciati.
Anche questa sera mi chiedo se ce la farò a continuare.
Coen, poco più di quattrocento abitanti, considerata la capitale della penisola, è una tappa fondamentale per riempire le borse anteriori di cibo e prelevare dollari dall’ATM. Ma ciò di cui più ho bisogno è un giorno di completo riposo.
Raggiungo Coen bastonato dal sole cocente di mezzogiorno. Nel campeggio metto la tenda sotto un mango, convinto che resterà all’ombra per tutto il giorno. Ma non sarà così, generando confusione alle mie certezze.
Il negozio di alimentari è anche un piccolo bazar. Oltre a comprare cibarie per più giorni, cerco un liquido infiammabile per sostituire l’alcol che non brucia. Mi viene consigliato di provare il kerosene. Sarà un fiasco; non brucia neppure quello. La vera brutta notizia è che l’ATM non ha soldi da sganciare e il prossimo è a Bamaga, praticamente in cima alla Cape York Peninsula. La spesa la pago con la carta di credito.
A Coen, nonostante sia una cittadina in miniatura, c’è tutto: polizia, vigili del fuoco, centro medico, scuole e un museo.
Il ristorante del pub propina piatti costosi. Preferisco prepararmi la cena da solo. Magari domani sera farò uno strappo e andrò al ristorante.
Questa sera, però, almeno una birra me la merito. Al banco pago la birra con venti dollari. Il tipo come resto mi dà venti dollari. Non capisco. Chiamo una signora che pare avere importanza e le spiego la buffa scena. Ride e non si meraviglia perché il suo uomo a quest’ora, dopo una lunga giornata di lavoro, è semplicemente fuso.
«Allora siamo in due» le rispondo.
«Comunque questa birra, per la tua onestà, è gratis, con un piatto di patate fritte in aggiunta». Una ragazza sudamericana, che poi scoprirò essere cilena, mi porta la seconda birra. Ho notato altre ragazze di nazionalità diverse, tutte qui a lavorare. Ci sono molti aborigeni che gironzolano lungo la via. Nel pub ne vedo solo due e sembrano molto in confidenza con i gestori. Potrebbero essere delle guide.
Mi sveglio presto. Corro a occupare una lavatrice. Vorrei farmi un tè, ma l’alcol nemmeno si accende. Vado in bagno sotto il rubinetto dell’acqua calda. Riempio la tazza ed ecco pronto uno schifosissimo tè appena tiepido.
Un vecchio solitario si sta preparando per partire. Il fuoristrada è di ultima generazione. Dorme in una tenda posta sul portapacchi. Nell’abitacolo ha stivato tutto ciò che gli serve e sono convinto che non gli manchi niente. Alto, magro, barba candida, con incedere dinoccolato, parla da solo. Gira attorno al proprio mezzo controllando se tutto è in ordine, se non ha dimenticato nulla; e lo fa ad alta voce. Mi ha ricordato il mio amico Michele quando mi portò a fare un giro su un aereo ultra leggero. Prima di decollare, a voce alta, controllò l’aereo girandoci attorno. Lo stesso ha fatto il vecchio con il suo mezzo.
Verso sera giungono un paio di attrezzati fuoristrada. Qui, comunque, sono tutti attrezzati. Là fuori non si scherza.
Faccio la conoscenza di Enzo, un ragazzo italo argentino, in Australia da due mesi. Lavora nel piccolo market del distributore. Senza questi ragazzi molte attività sarebbero costrette a chiudere. Chi non chiude mai sono i pub. La sete è una brutta bestia.
Enzo, capelli corti castano chiaro e pelle bianca, non ha i lineamenti di come ricordo gli argentini. I genitori erano di Ancona. Non è mai stato in Italia. Ha lasciato l’Argentina malvolentieri, ma la sua terra non gli dava più da vivere dignitosamente.
«È un paese troppo corrotto» ripete sconsolato più volte. Italia e Argentina sembrano essere legate da similitudini negative. D’altronde l’Argentina è fatta di italiani.
Arrivare al punto è molto triste.
Il kerosene non brucia, l’alcol neppure, non mi resta altro che usare la legna. Prima di partire ho comprato un piccolo aggeggio smontabile che sorregge e ripara il minuto serbatoio dell’alcol. Togliendo il serbatoio posso usare la piccola scatola di metallo bucherellata come stufetta a legna. Mi basta infilare in una finestrella dei pezzetti di ramo per avere una fiamma circoscritta sufficiente per cucinare. Un tipo vede che ho dei problemi con il fornello e si avvicina per darmi dei consigli, dopo essersi presentato. Mi chiede come mai non faccia un vero fuoco. Gli rispondo che non vorrei bruciare mezza Australia.
«Da queste parole – mi risponde – si capisce che sei una persona attenta, quindi tu potresti anche fare il fuoco». La moglie sta cercando la carta igienica. Lui, distrattamente, le dice che è nel cassettone che sta sul timone del carrello. Lei alza il coperchio ed esce una nuvola rossa di polvere. Pure la carta igienica è rossa. «E ora chi la usa», chiede lei un po’ spazientita. Lui non l’ascolta e dal cassettone tira fuori delle pastiglie accendi fuoco, anche queste coperte di polvere rossa.
«Queste ti saranno di aiuto» afferma porgendomele.
Di buon umore, comincio a pedalare verso nord. Strada in buono stato. Branchi di chiassosi pappagalli bianchi sbraitano tra di loro. Due mucche mi accompagnano per un centinaio di metri. Poi inizia una dirt road, uno sterrato molto duro. Ogni torrente è una ripida discesa, un guado dal precario fondo sassoso, fortunatamente in poca acqua, ma sufficiente per inzuppare i piedi. La risalita, certe volte, è così ripida da non riuscire a partire da fermo. Così mi tocca trascinare il carico fino in cima. Ma rimane la sabbia la nemica più acerrima della bicicletta. Sembra non desideri alcuna ruota addosso.
Dolorose strisce rosse lungo le gambe sono la scottatura dove il sole ha picchiato.
Avanzo piano, avvolto da un’afa che stordisce, inzuppato di sudore come fossi in piena cottura a vapore. Pensavo di raggiungere Archer River prima di mezzogiorno, invece ci arrivo, stravolto, alle due e trenta del pomeriggio. Il ginocchio sinistro è gonfio come un melone. Il cuore scarburato balbetta a un palpito dallo spegnersi. L’idea non mi spaventa nemmeno un po’. Privo di forze per ripartire, monto la tenda dietro il ristorante.
La signora che mi serve un hamburger mi dice che sa chi sono: «Quello che va in bicicletta a zig zag sulla pista». Arrivano dei lavoratori della strada che mi salutano calorosamente avendo seguito con divertimento il mio serpeggiare nella sabbia. Anche questo è un modo per farsi conoscere. Tra di loro risalta uno strano aborigeno, una quintalata e passa di ragazzo che mi fa molte domande sull’Italia. È ben istruito e anche molto assetato: in dieci minuti di parole ha tracannato un litro e mezzo di Fanta. Alle sette di sera il ristorante prende l’ultimo ordine. Alle otto tutto tace. La notte è molto lunga e meno male, così che posso recuperare. Il solito mantra: ce la farò?
Ho dormito un sacco di ore. Mi sento riposato. Ottima la decisione di fermarmi. D’altronde, non sarei riuscito ad andare oltre.
La carta stradale riporta un breve tratto asfaltato. Invece, fino allo svincolo che porta a Weipa da una parte e a Cape York dall’altra, la strada è tutta asfaltata di fresco, un nastro nero di bitume privo delle righe bianche. Tre mucche e un dingo giacciono morti sulla strada. Non ci sono recinzioni e gli animali vagano liberi. L’asfalto fa aumentare la velocità e, in particolare per i camion di notte, diventa difficile evitare gli animali. Anch’io pedalo più forte sull’asfalto e brucio i cinquanta chilometri che mi portano allo svincolo.
Nella biforcazione di strade e destini, sosto per masticare della carne secca con pane, mentre osservo l’inizio della via che mi porterà all’estremo nord. È una pista scorrevole di un colore rosso acceso, delimitata da erba alta di un verde intenso. Colori forti, dono della stagione delle piogge, ormai terminata, ma che ancora scarica qualche goccia. È una pista che in questo inizio si fa voler bene.
Entro in una zona di foresta fitta, molto intricata. Non sarà facile trovare un sito per il campo notturno. Lo scovo in una zona ruspata per creare un bacino artificiale, dove raccogliere e trattenere l’acqua piovana per i periodi di siccità. Dallo svincolo ho incontrato un solo fuoristrada. L’autista si è fermato per chiedere se necessitavo di qualche cosa, mentre il suo cane, seduto accanto, mi guardava sospettoso. In città, a Cairns, ho notato l’assenza di cani, mentre qui tutti ne hanno uno o due, a volte reclusi in gabbie sui cassoni dei pick up. Credo che questi cani abbiano un compito, oltre a quello di essere di compagnia.
Il fuoco a legna mi viene meglio di ieri sera. Metto meno rametti e ne aggiungo altri piano piano. Tengo una fiamma moderata ma continua. L’acqua bolle in fretta. Fuoco e fumo mi fanno sentire un po’ pioniere.
Un bambino che gioca, questo a volte mi sento.
Pedalo senza difficoltà, con piacere. Un cielo da pioggia rende la foresta, ai miei occhi, ancora più tropicale.
Un tipo solitario su una vettura berlina, poco adatta per questo percorso, mi affianca chiedendomi quanto lontana è la Telegraph Station e se per caso ho una carta stradale in più. Trovo strano che non possegga una mappa della zona, inoltre io non so niente di questa Telegraph Station. Ho poche informazioni su questo itinerario, e sono ben felice che quassù il telefono non mi sia d’aiuto. Scende dalla vettura. Ha voglia di parlare. È un inglese che dà l’impressione di non essere così felice di stare in vacanza. Mi sa che questo avrebbe preferito trovarsi nel pub a giocare a freccette con gli amici. Viaggia a caso e non ha ancora deciso quale rotta seguire. Pensa di tornare indietro e raggiungere qualche spiaggia a est, forse a ovest. Dorme in macchina sul sedile reclinato in mezzo a una gran confusione di cose buttate alla rinfusa. Osserva il cielo e bastano poche nuvole per convincerlo a fare inversione e tornare indietro. Personaggio bizzarro.
Una ventina di chilometri più avanti incontro la Moreton Telegraph Station, quella che cercava l’inglese. Situata sulla sponda del Wenlock River, quella che un tempo era una stazione del telegrafo, oggi è stata riciclata in un centro che accoglie camminatori intenzionati a visitare la poco contaminata area circostante. Nell’ampio prato delimitato dalla foresta ci sono delle piazzole per i campeggiatori. Delle tende militari già montate vengono affittate. Non può mancare la pompa di benzina e il ristorante. Nessuno in vista, sembra deserto. Quando esco da una rustica baracca-toilette noto un signore in divisa venirmi incontro. È una guida. Saluto amichevole all’australiana arricchito dalla battutina.
«Per il carburante devi fare il pieno là», indicandomi il distributore. Avido d’informazioni gli chiedo della Old Telegraph Track e dei coccodrilli. Lo vedo prendere un atteggiamento professionale e farsi serio.
«La vecchia pista del telegrafo è molto difficile e pericolosa, ma si può fare. Sarebbe meglio essere almeno in due. Uno resta di vedetta sulla riva a guardia di un eventuale arrivo di un coccodrillo, mentre l’altro attraversa. I guadi non sono un gioco. Forse, con la bicicletta, è più facile, ma è sicuramente molto più rischioso. C’è qualche fiume, come il Cookatoo, con ancora troppa acqua e correnti forti. Fai attenzione ai buchi neri, delle vere trappole profonde anche due e più metri».
Mi rimetto in marcia pensieroso più che mai, consapevole che dovrò guadare i fiumi almeno due volte, se non tre, per trasbordare tutta la mia roba sull’altra sponda. Provo a dirmi che gli attacchi dei coccodrilli avvengono raramente, ma sono capitati e chi li ha subiti non è mai riuscito a raccontarli.
Con la testa ingarbugliata di insicurezze raggiungo Bramwell Junction, senza accorgermene. Qui inizia la Old Telegraph Track. In alternativa si può proseguire sulla Southern Bypass Road sempre sterrata ma in buono stato e priva di guadi.
In un bivio così strategico non poteva mancare la Roadhouse con campeggio.
Ceno con un hamburger gigante. Bistecca, bacon, formaggio, foglia di lattuga, fetta di pomodoro, cetriolo e due fette di pane, una sotto, l’altra sopra, per dare l’idea dell’hamburger che non si può addentare, a meno di non avere delle fauci come quelle di un coccodrillo. Allora lo smembro, ci spruzzo sopra tutte le creme e le salse che trovo sul tavolo e con le mani butto nella pancia affamata tutto quel miscuglio. Purtroppo non hanno altri generi alimentari per integrare la scorta di cibo. Non mi preoccupo, convinto di avere sufficiente sostentamento per i due, massimo tre giorni che impiegherò per raggiungere Bamaga.
Fatico a prendere sonno, disturbato dagli unici campeggiatori, una famiglia che se la racconta a voce alta, ridendo a squarciagola. A dire il vero sono il percorso e i fiumi da attraversare che mi tengono sveglio. A peggiorare l’ansia ci si è messo di mezzo il libro che sto leggendo: “Un paese bruciato dal Sole” di Bill Bryson. Fatalità vuole che sono giusto arrivato a leggere dove si racconta la triste fine della fotomodella americana Ginger Faye Meadows. Un caso o un avvertimento? La giovane ragazza e altre cinque persone stavano girovagando lungo la costa del Kimberley a bordo di un motoscafo da crociera quando decisero di andare a visitare le Kings Cascade, dove buttarono l’ancora. Il capitano del potente motoscafo, Bruce Fitpatrick, avvertì della presenza di coccodrilli in quelle acque, sconsigliando di fare il bagno. Sordi alle parole del capitano, rassicurati dal “perché dovrebbe capitare proprio a me”, si tuffarono. La Meadows con l’amica Jane Burchett nuotarono in direzione di un piccolo scoglio. Stavano sguazzando in un paradiso terrestre, gioiose e divertite. Fu in quel momento che si accorsero di un grosso coccodrillo puntare verso lo scoglio, troppo piccolo per metterle in sicurezza. Il paradiso divenne un inferno. Le due donne cominciarono a urlare – è il racconto del capitano –. Disperate, lanciarono addosso all’animale perfino le loro scarpe di gomma. Per un attimo il coccodrillo si fermò e fu in quel momento che la fotomodella, abile nuotatrice, tentò di raggiungere la salvezza lontana venti metri. Poche bracciate e il coccodrillo l’afferrò per un fianco e la trascinò sotto per mezzo minuto, poi la Meadows riaffiorò tenendo le braccia in alto, gli occhi sgranati con un’espressione di terrificante incredulità stampata sul viso. Nessun urlo o grido d’aiuto le uscì dalla bocca. La terribile scena accadde sotto gli occhi dell’impotente capitano e dell’amica, paralizzata dal terrore. I resti della ragazza furono ritrovati il giorno dopo nello stomaco di un coccodrillo lungo oltre quattro metri. Era il giorno del suo venticinquesimo compleanno.
Recupero coraggio quando scopro che la tragica disavventura accadde nel lontano marzo 1987.
È calato il silenzio sul campo, ma il sonno latita. So di essere il più vulnerabile dei viaggiatori su questa pista. Di sicuro il meno appetitoso, ma i coccodrilli, ahimè, sono di bocca buona.
Venerdì 18 maggio. Inizio la Old Telegraph Track, abbreviata a sigla con OTT. Praticamente è uno stretto tracciato che serviva per fare manutenzione alla vecchia linea del telegrafo, che collegava Cairns con Cape York. Sull’inselvatichito tragitto restano a ricordo dei pali di ferro, atti a sostenere la linea di allora.
Poche centinaia di metri ed eccomi a sbandare e ad arenarmi in macchie di sabbia bianca. Neppure il tempo del benché minimo adattamento al peggio che mi trovo di fronte al primo insidioso guado. Bramwell Junction è ad appena tre chilometri. La riva fangosa va giù a picco. Il fiume scorre là sotto. Perplesso, mi chiedo come può un mezzo a motore salire e scendere da questo punto. Eppure la rampa in verticale è stata aggredita da ruote appena qualche giorno addietro. Do un’occhiata in giro e scovo un punto meno ripido per raggiungere il fiume. Pronti, io e la bicicletta, a scendere giù, consapevole della quasi certa possibilità di arrivarci scivolando in caduta libera, odo il rombo di motori in avvicinamento. Spuntano sull’altra riva quattro quad in fila indiana, pilotati da giovanotti australiani intonacati di fango e polvere. Per mezz’ora assisto e partecipo al duro lavoro per guadare e risalire l’argine del fiume. Alleggeriscono i quad dell’attrezzatura. Il primo, dopo vari tentativi, aiutato da noi quattro a trainarlo con una lunga fune, riesce, ruggendo, a scavalcare la viscida sponda sotto la mia incredula espressione. Un vero mulo meccanico. Meno complicato, ma pur sempre uno sporco lavoro, il passaggio degli altri tre, trainati da uno, due, tre quad. I ragazzi sono partiti da Weipa e ci stanno ritornando dopo un avventuroso, largo giro. Nei giorni a seguire mi chiederò come avranno fatto ad attraversare certi fiumi, e se i quad possono avanzare anche sott’acqua.
Se ne vanno. Per loro le difficoltà sono finite. Tre chilometri e saranno al sicuro a Bramwell Junction.
Io, al contrario, resto solo, con il problema di non finire gambe all’aria scivolando nel fanghiglia fin dentro il fiume. Sale un filo di ottimismo pensando che, con tutto il rumore combinato, qualche eventuale alligatore in zona si sarà allontanato. Mezzo metro d’acqua mi consente di attraversare il fiume trascinando la bicicletta carica. Il fondo di ciottoli è viscido. Gli scarponi mi danno sicurezza. Le acque scorrono tranquille forzando appena la pressione quando incontrano la barriera della bicicletta messa di traverso. Approdo sull’altra sponda anche questa troppo ripida. Recupero tutte le forze a disposizione di un sessantaseienne e, auto incitandomi urlando nel dialetto più becero, ho l’ambiziosa pretesa di portare su tutto il mio corredo a forza di braccia. A metà salita sono piantato, con tutto il corpo teso in uno sforzo al limite. Sento gli scarponi perdere la presa sul terreno. Conosco già il mio destino: scivolo e ritorno al punto di partenza con il culo per terra. Stacco le borse e do inizio al lavoro di facchinaggio per portare tutto in cima. Sfinito, bagnato e infangato recupero fiato. È avvilente sapere che Bramwell Junction è ancora così vicina che, se urlassi «venitemi a prendere», i soccorsi arriverebbero in pochi minuti.
Riaggancio le borse e proseguo. Non riesco a pedalare, c’è troppa sabbia, mi tocca spingere. Uno sforzo immane peggiorato dalla sgradevole sensazione dei piedi inzuppati. I pantaloni lunghi impediscono l’entrata della sabbia negli scarponi. Lo sfregamento di acqua e sabbia sarebbe deleterio per la pelle dei piedi.
Per un lasso di tempo indefinibile, accompagno il disagio fisico attraverso una boscaglia vigorosa che giudico in salute, fino ad andare a sbattere su un altro fiume. La riva scende dolcemente verso le scure acque. Non vedo l’approdo dall’altra parte. Solo l’erba calpestata marca una stretta traccia, un’idea di sentiero appena nato. Nessuna auto potrebbe passare per di là. Non mi resta che andare a controllare. Con circospezione e misurato timore, entro nel fiume guardandomi attorno conscio dell’abilità dei coccodrilli di mimetizzarsi. Sull’altra sponda noto le tracce dei quad su un sentiero al limite per una bicicletta. Un passaggio alternativo creato da poco per quad e motociclette. Di seguirlo non ci penso, potrei perdermi. Ci sarà pure un accesso per i fuoristrada. Ma dov’è? Deve essere il mio giorno fortunato perché sento il ronzare su di giri di una motocicletta che spunta dalla traccia lasciata dai quad. Un uomo a cavallo di una moto attraversa con abilità il fiume. Si leva il casco, saluta appena, si accende una sigaretta e attende nel fiume l’arrivo di altri quattro motociclisti, per poi guidarli nell’attraversamento. A uno gli si spegne la moto in mezzo al fiume evidenziando una scarsa abilità di biker. Silenziosi, quasi imbronciati, non sembrano essere amici. Di sicuro non c’è feeling tra di loro. Non chiedo chi sono e da dove vengono. Non portano un minimo di bagaglio. Mi faccio l’idea di motociclisti raggruppati da un’agenzia per percorrere tragitti avventurosi. Probabilmente sono seguiti da un mezzo di supporto che si muove sulla pista principale. Il primo arrivato, dall’atteggiamento, lo penso come il capo branco. Rompo il silenzio chiedendo se sa dove posso ritrovare la via principale.
«Il sentiero da dove siete arrivati mi sembra troppo poco segnato e temo di perdermi» specifico per avere una risposta concreta. Il tipo accende l’ennesima sigaretta, una nuvoletta di fumo fugge dalla bocca. Con l’indice segna un’ansa del fiume. «Cammina dentro il fiume fino a quella curva e da là vedrai la pista».
È un’attraversata lunga, e il non scorgere la meta mi rende dubbioso. Due ragazzi capiscono la situazione e, continuando il mutismo della messinscena, mi fanno cenno di seguirli. Come fossero a conoscenza della mia gelosia, a me lasciano la bicicletta e loro si spartiscono il bagaglio. È decisamente poco piacevole entrare nel fiume vestito, con l’acqua fino alla pancia. Fatico non poco per tenere sollevata la mia vecchia compagna dalle carni di acciaio. Solo le mie parti intime godono della frescura regalata dall’acqua. Non credo che le tute e gli stivali dei motociclisti siano impermeabili, eppure avanzano con disinvoltura. Dopo una semicurva appare l’imbocco della pista. Non so come ringraziarli. Loro sono di poche parole: «Safe journey, mate». Sono australiani. Quei musi lunghi mi fanno pensare che abbiano litigato tra di loro. Può capitare quando si raggruppano caratteri diversi in un contesto problematico.
Ora ho altro a cui pensare. Sono ancora a un tiro di schioppo da dove sono partito ed è già pomeriggio avanzato. La pista rimane sabbiosa. Pochi i tratti che posso affrontare in sella. Spingo con forza sorretto dalla speranza di capitare in un tratto migliore. Possibile che sia tutta così? E pensare che la dettagliata cartina geografica mette questo primo tratto come easy, facile. A me non pare proprio. Allora cosa troverò quando sarà difficile. Le sabbie mobili?
Dopo un’interminabile giornata, così impegnativa da essermi scordato di mangiare, giungo sull’ennesimo fiume. È il Dulhunty River. A una prima occhiata pare poco profondo. Una cascatella increspa e spumeggia le acque. Non so come agire. Accamparmi da questa parte dove appena più indietro ho notato un buon posto, oppure attraversare, così che domani mattina evito la sgradevole necessità di infradiciarmi fino all’inguine. Ad ogni modo, so benissimo che i miei vestiti non si asciugheranno durante la notte. Sono le quattro del pomeriggio, meglio dire di sera. Alle sei già fa buio. Poi mi chiedo se i coccodrilli sono più attivi di sera o di mattino. Secondo il mio ragionamento preferiscono il caldo per muoversi, per cui è meglio attraversare domani mattina presto quando l’acqua è più fredda. Mi accorgo di ragionare ad alta voce, usando mezze frasi in inglese, perché conosco la lingua a metà, su una base di ruspante dialetto ferrarese che interviene quando devo sentirmi più uomo.
Per cena, gli insostituibili noodles preparati sul minuscolo camino a legna. A seguire mezzo litro di tè con biscotti secchi. Filtro due bottiglie di acqua di fiume. Un lavoro lento ma indispensabile. Il mondo sta talmente progredendo e non ci si può più fidare nemmeno dell’acqua del rubinetto, figurarsi quella di fiume. Sigillo ermeticamente le borse. Non vorrei che qualche animaletto velenoso, delle migliaia che annovera l’Australia, ci s’infilasse dentro. Gli scarponi, nonostante il lezzo di cane bagnato, li tengo in tenda con me. Serviranno da narcotico. Spossato, mi adagio lento sul materassino che si sgonfia. Ho voluto spendere poco ed ecco il risultato. Ma il materassino è l’ultimo dei miei problemi.
Resto in intimità con i miei pensieri nella notte buia.
Il corpo prova a parlarmi. Il ginocchio sinistro malandato da quando in gioventù mi divertivo a correre dietro a un pallone, non mi preoccupa più di tanto. Mi fa male, ma è roba meccanica, di quello non si muore. Altra storia sono i dolori alla schiena che potrebbero derivare da un mal funzionamento dei reni. Dopo l’attraversata dell’Africa ho subito un’operazione a un rene che mi ha tenuto lontano dalla bicicletta per oltre un anno. Quando il rene si bloccò ero vicino a un ospedale e fui soccorso immediatamente. Dovesse capitarmi ora sarei spacciato, oltre a patire un dolore che, ricordo, fu lancinante e continuo. Massaggio la parte sofferente, tutto quello che posso fare. Forza amico sonno, giungi ad anestetizzare le saltuarie insicurezze.
Infilarsi, appena svegli, calze e scarponi bagnati e incrostati di sabbia non è certo una libidine. Recupero il coraggio di vivere dopo due fette di pane e marmellata e il solito mezzo litro di caffelatte. Scruto dall’alto il Dulhunty River. Mi rassicura l’apparente affrontabile profondità. Decido di attraversarlo con la bicicletta carica. L’acqua corre allegra e limpida. Sto alla larga dalle macchie nere. A metà fiume la corrente preme con più forza. Le borse vengono sommerse. Nella loro gioventù erano impermeabili, ma l’età le ha rinsecchite, screpolate. L’acqua fredda dovrebbe tenere parcheggiati i coccodrilli. Procedo piano, attento a non scivolare. Sarebbe un mezzo dramma se succedesse. Tocco terra, felice come quel marinaio che non la vedeva da mesi. Frettolosamente mi stacco dal fiume. Il ciak ciak dei piedi a mollo negli scarponi si fa sentire fin che non salgo in sella e vado. Ci pensa la sabbia a fermarmi. Maledetta! Allora scolo gli scarponi, strizzo le maleodoranti calze poi, con fatica e disgusto, me le rimetto e continuo a spingere. Per qualche tratto mi è concesso di pedalare. Delle profonde crepe tagliano la pista, in certi punti così stretta da sembrare un sentiero. Le spaccature, larghe come canalette, sono state riempite con dei grossi tronchi così da permettere il passaggio dei fuoristrada. Giganteschi termitai svettano come cattedrali. Vigorosi cespugli invadono la carreggiata. I loro tentacoli frustano il viso e le gambe. Temo di sbattere contro un qualche serpente aggrovigliato su un ramo o attorcigliato sul ciglio della pista. È un’allerta continua.
Odo lo sciabordio di acque agitate. Ho raggiunto il Bertie Creek. La pista si biforca in due stradelli. Tengo la sinistra seguendo il sentiero più battuto che mi porta in uno spiazzo con segni di bivacchi recenti. Ma non esiste né un’entrata nel fiume e neppure un’uscita dall’altra parte. Ispeziono attentamente le due sponde. Niente, nessun segno di passaggio. Inoltre il fiume è profondo e turbolento. È sicuro che da qui non si passa. Torno all’incrocio e seguo la traccia di destra, ma peggio ancora. Non mi rimane altra alternativa che aspettare all’incrocio. Passerà qualcuno, se non oggi, domani, chissà.
Dopo due ore di attesa odo il rombo di un motore. Spunta il muso bianco di un fuoristrada mostro. Gigantesco, gomme da camion che lo tengono così alto da terra che potrei montarci la tenda sotto. Marmitte e filtri s’innalzano verso il cielo come camini di una fabbrica. Scende un ragazzo dai capelli corti e rossi, come rossa è la lunga barba. Due orecchie a sventola sorreggono un ridicolo cappello dalla visiera lunga e rigida. Dall’altra parte salta giù una ragazza. Mi danno la mano. «G’day, mate». Quel mate mi piace molto. Sa di amicizia, di solidarietà, di sana, rude ruralità.
Osservano la situazione. Spiego loro che non ho visto nessun passaggio. «Allora è più indietro» mi comunica sicuro il giovane. Mi fa cenno di seguirlo. È costretto a innumerevoli manovre prima di riuscire a girare il bestione. L’intrigo di vegetazione lo fa sparire dalla mia vista, ma non il rombo da carro armato. Scendiamo nel fiume seguendone la riva, restando in mezzo metro d’acqua. Proseguiamo per un trecento metri. Con mia grande gioia, dall’altra parte appare la rampa della pista. Da solo non l’avrei mai trovata. Attraversano prima loro. Poi tocca a me con la coppia che mi dà la corretta traiettoria. Ormai ci sto facendo l’abitudine e questo attraversamento, grazie al fortunoso incontro, si è trasformato in uno dei più semplici e dei più sicuri. Anche se nella terra dei coccodrilli nessun fiume è sicuro e nessun essere umano vicino ti può salvare. Quando il coccodrillo attacca non c’è più speranza.
Due sgasate, una nuvoletta di fumo nero e il bestione prosegue come volesse divorarsi tutto ciò che incontra sul suo cammino. Udirò il confortante ruggito spegnersi lentamente. Ancora una volta solo. Ancora a faticare tanto, per progredire poco.
È la volta del Gunshot Creek. È una terra venata di fiumi. Un’altra peculiarità di questo continente che mi affascina sempre di più.
Il fiume lo vedo laggiù e, da dove mi trovo, mi sembra impossibile che dei mezzi a motore, seppur potenti, riescano a scendere o ad arrampicarsi su queste sponde che assomigliano a muri, tanto sono erti. Eppure sono evidenti le impronte di pneumatici che hanno artigliato il terreno con la rabbia della potenza di tutti i loro cavalli. Magari sono le ruote del fuoristrada mostro.
Cammino avanti e indietro senza scovare una discesa abbordabile. Devo, per forza, calare le mie cose steso pancia a terra. Il rotolare giù delle borse non mi dà pensiero, al contrario della capriola fatta dalla bicicletta. Nessun danno, è una roccia.
Il passaggio del fiume con poca acqua è molto semplice, così come semplice è la dolce risalita. Decido di fermarmi qui per la notte. È un buon posto. Ho l’acqua a portata di mano, c’è la legna giusta per il fuoco, inoltre non saprei dove trovare altre forze. Ma quelle sembrano avere sempre una riserva nascosta. Dove io la tenga, non lo so. Magari nella caparbietà.
Monto la tenda. La pulisco all’interno dalla odiata e invasiva sabbia. M’infilo le ciabatte mettendo a scolare scarponi e calze inzuppati da due giorni. In uno scarpone ho avuto, per tutto il giorno, la sensazione che della sabbia si fosse accumulata sotto la pianta del piede. Una volta tolto l’ho sbattuto forte e, insieme a un po’ di sabbia, è fuoriuscito, fuggendo velocemente, un grosso insetto tipo millepiedi, lungo una quindicina di centimetri. Per la miseria, me lo sono tenuto tutto il giorno nella scarpa.
Il lamento, un dolce suono, di un fuoristrada in avvicinamento mi rende felice. Una signora bionda scende dal mezzo mentre il marito cerca il posto giusto per parcheggiare. La donna, accennando un sorriso, dice che ci siamo già visti a Coen, ma io, purtroppo, non essendo fisionomista non li ricordo.
Julianne sessantatré anni e Robert sessantasette vengono dalla Tasmania. M’invitano a cena. Non posso presentarmi sporco portandomi appresso odori di selvatico. Prendo l’asciugamano, niente sapone, e scendo al fiume. Mi denudo e coraggiosamente entro in acqua. A questo punto, e chissà mai perché, mi sovviene la storia della donna che, per timore dei coccodrilli non aveva voluto tuffarsi per fare il bagno insieme ai suoi famigliari. Aveva preferito attenderli sdraiandosi sulla rassicurante riva. Un destino crudele le è piombato addosso in un attimo, silente, e senza nessun segno premonitore. Appena un grido strozzato, un furente mulinare d’acqua e la donna che sparisce nel fiume, trascinata via da un coccodrillo sotto gli occhi impotenti della sua famiglia. Sto sguazzando in questo placido fiume con delle persone a cento passi, eppure potrei sparire in un attimo.
Comincia a insinuarsi una inquietante ‘cacarella’. Velocemente mi sfrego con della sabbia come sostituto del sapone, un tuffo per risciacquarmi e di corsa mi allontano prima di asciugarmi.
Calzoni e maglietta puliti, seppure un po’ stropicciati, mi rendono presentabile. Robert e Julianne non stanno percorrendo la OTT. Dalla pista principale sono entrati per trascorrere la notte sul Gunshot Creek. Mi dicono che l’insetto che avevo nella scarpa è un centipede. Ce ne sono di vari tipi, alcuni dalle punture molto dolorose, ma la maggior parte sono innocui. Il mio di sicuro lo era. Fortunatamente Robert e Julianne amano il vino e ne sono ben forniti. La serata trascorre in un crescendo di amicizia e di risate.
So che potrei rovinare l’armonia creatasi, ma non posso fare a meno di chiedere come stanno gli aborigeni in Tasmania oggigiorno. Robert rimane un po’ spiazzato dalla domanda. Facendosi serio, racconta che il popolo originario della Tasmania, i Parlevar o Palawa, non esiste più. Quando sbarcarono i primi coloni inglesi nel 1803, sull’isola vivevano meno di tremila aborigeni. Malattie portate da marinai avventurieri, da cacciatori di balene e di foche, decimarono i nativi già prima dell’arrivo degli inglesi. In seguito, il bisogno incontentabile dei coloni di possedere terre, fiumi, animali portò allo scontro con gli aborigeni, i quali si difesero armati solamente di armi preistoriche. Più di un quarto dei nativi furono uccisi e i restanti segregati in piccole zone. Nel 1876 moriva Truganini, quella che per tutti è considerata l’ultima aborigena Palawa della Tasmania. Meno di un secolo per cancellare un popolo.
Oggi si vedono aborigeni mischiati ai bianchi, i così detti integrati, con una buona parte di loro ancora a disagio per il violento cambio di cultura. Tant’è che si è formata una piccola comunità di discendenti di aborigeni Palawa che sta tentando di recuperare le antiche tradizioni e soprattutto la propria lingua. È la lingua a distinguere i vari gruppi indigeni.
«La Tasmania – prosegue Julianne – è un’isola verde, con tanti territori selvaggi protetti da parchi. Si vanta di vasti tappeti di erba da pascolo, nutrimento per migliaia di pecore. È un luogo tranquillo, dove si vive bene. Solo la storia è molto cruda e difficile da raccontare».
Prima di mettermi a dormire prendo in mano il diario per scrivere, quindi rammentare, dell’incontro con la coppia della Tasmania. Annoto pure i chilometri, oggi appena venti. Una scrollata di spalle da menefreghista, quale non sono. In fondo non è detto che siano i tanti chilometri percorsi a rendere la giornata intensamente vissuta.
Di notte sento un qualche cosa muoversi vicino alla testa. Non gli do peso, convinto che sia solo un topolino sotto il catino della tenda.
Sono in piedi alle prime luci. Robert e Julianne scendono goffamente dalla tenda montata sul tetto del fuoristrada. Consumiamo la colazione insieme poi ci salutiamo. Loro ritornano sulla Bypass Road. Non ci rivedremo più.
Sposto il materassino e sbuca veloce il centipede. Ecco cos’era che si muoveva sotto il cuscino questa notte. Dopo averlo tenuto nella scarpa me lo sono portato anche a letto.
A sette chilometri c’è il Cookatoo Creek e quando lo vedo mi spavento. È molto largo. Le acque fluiscono veloci assorbite da una cascata poco più avanti. E, come se non bastasse, c’è un allarmante cartello che invita a stare lontani dal fiume, tantomeno a entrare in acqua per la presenza di coccodrilli. Sono nervoso. La riva, sia da una parte che dall’altra, è comoda. È proprio il fiume a farmi maledire di essere lì. Ho una brutta sensazione e una crescente fifa.
Dall’alto controllo e studio la via migliore, quella meno profonda. Quando penso di averla trovata mi preparo. Devo sforzarmi di fare solo due viaggi. Sigillo le quattro borse. Nella sacca impermeabile, oltre alla tenda ci ficco il bauletto che va attaccato al manubrio con dentro le cose che non devo bagnare assolutamente. Borsa impermeabile sulle spalle dietro la nuca, trattenuta dalla cinghia stretta in bocca, come un morso per cavalli. Coppia di borse per ogni mano.
Appena entro in acqua vivo un attimo di profondo sconforto. Ma devo andare, e vado. Le malefiche macchie nere mi costringono a tenere lo sguardo puntato sul fondo. La corrente è forte e a metà fiume comincio a perdere le forze. Tenere sollevate le pesanti borse diviene una fatica dolorosa. La cinghia della borsa impermeabile mi sta slabbrando nonostante i denti ben serrati. Sono obbligato a veloci soste per riprendermi. L’acqua mi arriva allo sterno. In un momento di crisi una borsa finisce sott’acqua e non essendo più impermeabile si riempie trasformandosi in un macigno. Grugnisco a tutta voce per farmi forza. Tengo duro.
Non so come, raggiungo la riva. Le braccia non le sento più. I denti ci sono ancora tutti e hanno fatto un ottimo lavoro. Mi serve tempo per riprendermi. Intanto osservo se ci sono dei movimenti strani nel fiume. A corpo libero, torno dall’altra parte scegliendo una via diversa, ma finisco per andare in difficoltà. Così che per trasportare la bicicletta ripeto la prima traversata.
Un grido di gioia annuncia l’avvenuto guado del Cookatoo Creek. Porto tutte le mie cose lontano dal fiume. Mi spoglio. Approfitto del potente sole per asciugare i pantaloni e le calze. Le borse anteriori sono piene d’acqua. Al loro interno un grande macello. Mentre nella sacca impermeabile è tutto in ordine non avendo mai toccato l’acqua. Dopo un’ora riparto con la novità delle calze asciutte e con la convinzione che, quando incontrerò la Bypass Road, mollerò la OTT. Non ho cibo a sufficienza. Non mi è mai capitato di fare così pochi chilometri in un giorno. Nemmeno sulle mulattiere del Tibet. A piedi avrei fatto il doppio di strada. Andando a nord, i fiumi, ancora gonfi d’acqua, sono sempre più difficili da attraversare. Mi devo accontentare. Credo di avere già fatto tanto e rischiato troppo.
La pista sulla carta è segnata come hard, difficile, ma per me è migliorata, perché pochi sono i tratti con sabbia. Certo, è tutta spaccata da smottamenti, crepe e ripide dune, ma in bicicletta procedo stando in sella. Credo che le mappe siano disegnate per i mezzi a motore. Quando per loro è hard per me è easy e viceversa.
Maledizione, un altro fiume. Ma quanti ce ne sono? Un malandato ponte di legno chiuso al traffico lo attraversa. Ci vado sopra per ispezionarlo. Un uomo e la sua bicicletta ancora li regge. Comunque sia, preferisco rischiare di finire di sotto piuttosto di entrare in acqua ancora una volta.
Sbuco sulla larga Bypass Road. Abbandono l’insidiosa Old Telegraph Track. Pedalo per un paio di chilometri finché non trovo una stradina a fondo chiuso. La seguo e, giusto quando s’interrompe davanti alla foresta, metto giù la tenda dentro la quale ritrovo il centipede che pensavo di avere scacciato. Questo non mi vuole più mollare. La tenda è diventata la sua nuova casa. A proposito, come farà a ritornare dai suoi cari?
Piove, e il cielo non lascia presagire un miglioramento. Dopo una scatola di fagioli freddi e due fette di pane con burro d’arachidi salgo in sella incurante della pioggia. Viaggiando in bicicletta, il corpo e la mente si adattano in fretta a sopportare gli sbalzi e le diversità climatiche. Fossi a casa con questa pioggia uscirei con tanto di ombrello o impermeabile, o non uscirei affatto.
Pista larga e ben battuta. Qualche tratto è reso brigoso dalle raspate delle ruote dei quattro per quattro. Incrocio due fuoristrada visti oltre una settima fa. Loro stanno tornando indietro, io devo ancora arrivare. Abbiamo tempi diversi.
Smette di piovere, spunta il sole, la temperatura schizza in alto. Alle due del pomeriggio raggiungo il traghetto sul Jardin River. In una casetta che funge da biglietteria, ci sono due ragazzi: uno bianco pallido e l’altro nero, ma non aborigeno, neppure africano. Il bianco m’informa che Bamaga è a quarantanove chilometri. Potrei farcela. Ma perché massacrarmi. Qui c’è da campeggiare e la possibilità di una doccia fredda. Dispongo di una tettoia con dei tavoli tutta per me e ho molte cose da mettere in ordine. Stranamente lungimirante decido di fare tappa. Comincio con lo svuotare le borse, pulire e asciugare sacchetti e contenitori. Appendo la tenda e la lavo con una gomma per irrigare. Tento senza successo di riparare il materassino. Poi tocca a me lavarmi sotto un getto di acqua fredda.
Quando ritorno, la tettoia è invasa da arzilli vecchietti scesi da un bus. Sono dei vacanzieri di Perth in sosta per il tè pomeridiano. Una distinta signora ordina a una ragazza in pantaloncini corti, camicia verde mezze maniche e tipico cappello australiano, di portarmi un tè con dei biscotti. La signora mi chiede da dove vengo. Appena pronuncio la parola Italia, la signora urla: «Ciovàniii».
Arriva Giovanni, un piccoletto scattante, nato in Abruzzo, ma che vive in Australia da sessantadue anni.
«Scusa Giovanni, ma quanti anni hai» gli chiedo confuso. Ottantasei mi risponde. Qualcuno nasce fortunato. Mi racconta che ha lavorato come muratore risparmiando il centesimo, convinto che un giorno sarebbe ritornato nell’amato Abruzzo. Ma il tempo è filato via inesorabile, influenzando anche il suo modo d’intendere la vita. È ritornato nel suo paese due anni fa e, al contrario delle visite precedenti, ha capito che sarebbe stata l’ultima volta, e non certo per l’età. Molti coetanei non c’erano più e l’Italia, dopo oltre mezzo secolo di Australia, non la capiva più. Ama la sua terra di origine ma non potrebbe più viverci. Ora è contento della scelta fatta da giovane. Ha una grande famiglia e tutti parlano in italiano.
«Perché in casa mia si parla solo italiano» afferma in modo deciso, da patriarca.
Il bus carico di persone fortunate per la lunga vita concessagli e ben vissuta, se ne va. Alle cinque il traghetto chiude. Se ne vanno pure i ragazzi. Resto solo, in una notte spazzolata da un vento caldo. Sporadici scrosci tentano di mitigare la pesante afa. La coda della stagione delle piogge colpisce di striscio.
Quando ritornano i ragazzi, io sono già pronto da tempo. Non mi fanno pagare niente, né per il campeggio, neppure per il traghetto. Attraverso il Jardin River, il fiume più importante del Queensland, sempre gonfio d’acqua. Di là sono nella Northern Peninsula Area che i locali abbreviano con l’acronimo NPA.
Mi sono accorto che gli australiani hanno una buona considerazione di me, in quanto ho messo molti autunni alle spalle e preferisco starmene tutto solo nella natura. Il loro “crazy old man” mi piace un casino.
La pista non è facile, ma è niente in confronto agli ultimi tre giorni. Neppure il vento forte ce la fa a farsi notare. Gli scrosci li accetto come acqua battesimale, il battesimo di questa nuova pagina di vita. Messi al sicuro soldi e passaporto, l’acqua dal cielo è libera di ‘docciarmi’ dalla testa ai piedi. Tornerà il sole ad asciugarmi.
La variabilità mi accompagna fino a Bamaga, un paesone di poco più di mille abitanti. Per la maggior parte sono di una etnia a me sconosciuta, diversa da quella aborigena.
Seduto a un tavolo di fronte al supermercato, intento a sfamarmi con una arroventata pie, un tortino ustionante ripieno di carne e verdura, osservo i viaggiatori arrivati quassù su potenti mezzi a motore, mentre stivano nel loro interno metà supermercato. Ma quanta fame hanno e quanto tempo stanno in giro?
Una donna si siede al mio tavolo per fumare una sigaretta. Mi sorride, e allora ne approfitto per chiederle se le persone di colore sono aborigeni, come li intendo io, che vengo da fuori, accompagnato da scarsa cultura.
Pare felice di rispondere e racconta: «Sono nativi delle Torres Strait Islands, un serie di isole e isolette, che si trovano tra la Cape York Peninsula e la Papua Nuova Guinea. Giunsero su queste isole dalla Melanesia e della Polinesia più di duemila anni fa, sviluppando una propria cultura. In seguito approdarono anche nella penisola di Cape York. Sono persone amabili». Ringrazio la donna della spiegazione.
Mentre pedalo alla volta di Seisa, ricollegandomi al racconto della fumatrice, la mia mente parte per uno dei suoi assurdi viaggi. Migliaia di anni fa, quando la terra era poco popolata o popolata il giusto, c’era spazio sufficiente perché i popoli potessero spostarsi, all’occorrenza, in cerca di territori migliori per vivere. Poi, gli esseri umani si sono moltiplicati, e continuano a moltiplicarsi, peggio dell’invasione dei conigli in Australia, affollando tutte quelle parti della terra dove l’uomo può vivere. Oggi siamo in troppi, non c’è più spazio. La terra è sempre più saccheggiata dalla nostra avidità. I deserti vengono trivellati, scavati. I ghiacciai si sciolgono, le foreste nemmeno più tagliate, bensì bruciate, così da liberare il terreno più velocemente. Gli spazi naturali per gli animali selvatici si riducono, scompaiono, causando l’estinzione di molte specie. Dovremmo, urgentemente, cambiare radicalmente i nostri comportamenti, ma temo non succederà. Mi spaventa l’idea che possano essere i potenti del mondo, quelli che pur di arricchirsi fanno morire di fame e di malattie migliaia di bambini e non solo, a trovare il modo di far calare drasticamente la popolazione mondiale. È un tarlo che mi rode in testa e m’inquieta.
L’arrivo a Seisa cancella i pazzi ragionamenti.
A Seisa, meno di cinquecento abitanti, c’è un piccolo porto dove attracca una nave cargo che ogni venerdì salpa alla volta di Cairns.
Velocemente monto la tenda nel campeggio che dà sulla spiaggia. Luogo incantevole, senza alcun dubbio.
Di fretta raggiungo il vicino porto. Nell’ufficio, piccolo e anonimo, ci lavora una ragazza dalle caratteristiche polinesiane. Per il biglietto mi tocca compilare un modulo che sembra la richiesta di un ospedale. Mi chiedono tutto sulla mia salute passata, quella recente, e di come mi sento fisicamente ora. Compilo e consegno. La ragazza invia la mail. Dopo un po’ squilla il telefono. È la sede centrale di Cairns che chiede direttamente alla ragazza che tipo sono e se le sembro veramente in salute. Ormai è chiaro: le autorità australiane sono allergiche agli stranieri attempati. La ragazza risponde gentilmente, poi, in seguito a insistenti ulteriori domande sulla mia salute, si spazientisce con il lontano superiore, e in modo brusco e deciso, replica: «Quest’uomo è arrivato fin quassù in bicicletta percorrendo la OTT. Non so cosa gli può succedere domani, ma ora so che io, quarant’anni meno di lui, sarei spaventata solo a pensare di fare quello che ha fatto lui, e quello che il suo corpo gli ha permesso di fare!».
Con lo scatto di carattere di questa ragazza, che avrei voluto conoscere a pari età, ottengo il permesso di acquistare il biglietto dai sospettosi uffici di Cairns. Devo sborsare 540 dollari che la mia carta di credito sgancia solo in parte. La ragazza, sempre più concreta, mi permette di saldare il resto prima di partire o, male che vada, a Cairns.
Sono felice per il ritorno in nave, un’esperienza alla quale ci tenevo, nonostante il costo esagerato e nonostante continui a essere allergico all’acqua.
Nel quieto campeggio osservo il pascolare svagato e pigro di alcuni cavalli. Dei pappagalli neri camminano impettiti con passo militare cadenzato, aprendo a ventaglio una vistosa cresta, magari per far colpo su una innamorata o per minacciare un rivale. Un signore sta puntando con interesse il binocolo in direzione dell’isolotto di fronte. Mi passa il binocolo e vedo chiaramente un saltie, un coccodrillo marino.
«Raramente vengono su questa sponda» risponde a una domanda che ho solo pensato. Raramente non significa mai. Infatti, nel 1984, è accaduto che un coccodrillo si portasse via un operaio, mai più ritrovato. Un cippo con una targa commemorativa nei pressi del porto ricorda la triste fine del portuale. Il signore mi fa notare che è un fatto di molti anni fa. Questa lunga astinenza mi preoccupa; un motivo in più per stare lontano dall’acqua. Ho notato che anche i pescatori, dopo avere lanciato l’esca, fissano le canne sui porta canne e si allontanano, sorvegliandole da una trentina di metri. Gli spavaldi non mancano mai e a qualche predestinato gli succede di passare alla storia con l’aiuto di un alligatore affamato o troppo protettivo del proprio territorio.
23 maggio. Oggi intendo raggiungere “The Tip”, che a me viene più naturale dire “The Top”. È il punto più a nord dell’Australia. Necessito di un buon carico di energia. Perciò entro nel ristorante take away e mi abbuffo di un piatto colmo di pesce fritto tipo Findus, due uova fritte, pancetta, funghi, fagioli e pane. Due tazze di caffè completano la colazione.
A Bamaga compro del pane, fiocchi d’avena, tre banane e una scatola di fagioli, che in seguito scoprirò essere ceci. Avrei dovuto mettermi gli occhiali.
Penso di trascorrere la notte lassù in cima.
Il percorso è piuttosto ondulato. D’altronde il mondo non può essere tutto una Pianura Padana.
Venticello contro e soliti piovaschi a rendere collosa la polvere della pista, che si fa sempre più angusta.
La rigogliosa foresta tropicale, una meraviglia, insiste per riappropriarsi del timido tracciato, a lei strappato con la forza. Riemergono sensazioni, stati d’animo, che mi riportano al viaggio in Amazzonia. D’altronde il clima è quello, lo scenario pure. Ma qui la foresta non è molestata.
Ora è fango puro e in un paio di occasioni devo liberare la ruota dietro usando uno stecchetto; altro riaffiorare di ricordi. Stesso fango, stessa bicicletta ma dal colore diverso, e stesso cavaliere, ma con venticinque anni di più sul groppone. Il presente cerca, inutilmente, di confondersi con i ricordi del passato. E se l’ambiente si assomiglia, mutate sono le mie percezioni ridefinite dal tempo.
In sosta a osservare il nuovo, antico mondo, impegnato in confuse sovrapposizioni di antiche cartoline con scatti del presente, vengo raggiunto da due rangers, nativi del posto. La mia assorta immobilità in un luogo del genere, deve averli preoccupati. Mi chiedono se tutto è a posto, se mi sento bene. Rassicurati, vogliono sapere da dove vengo e quanti anni ho. Mi fanno i complimenti e non certo per la mia patria. Precise e insistenti sono le raccomandazioni a non avvicinarmi a qualsiasi corso d’acqua, compresi quelli appena più larghi di un fosso.
Un paio di strappi molto ripidi precedono alcuni edifici di legno abbandonati, soffocati dagli abbracci possessivi dei tentacoli della foresta. Appena oltre, la pista termina sullo Stretto di Torres.
Mi ero immaginato una bella fotografia con me, la bicicletta e il cartello che indicava il punto più a nord dell’Australia. Invece l’estremo nord è a dieci minuti di cammino sulla scogliera. Non dovrei mai fare previsioni. So benissimo che un destino beffardo si diverte a farmi gli scherzi. Abbandono la bicicletta e m’incammino per un accidentato sentiero tra gli scogli, in compagnia di tre giovanissimi, buffi ragazzi. Una lei, magrolina in maglietta e pantaloncini corti e due lui che sono la coppia sputata di Stanlio e Olio. I maschi sfoggiano esagerati cappelli dell’outback. Mai visti due cappelli con una tesa tanto larga, che nel vorticare del vento mi ricordano il nuotare del pesce Manta. Sono gioiosi, felici di vivere. Parlano, si stuzzicano. Lei pare la fidanzata di tutti e due. Ogni qual tanto si girano per chiedermi se sono okey. In difficoltà sulle scivolose rocce, mento rispondendo: «okey, okey!».
Eccoci nell’estremo nord dell’Australia. Ce lo indica un solitario misero cartello, che quasi niente disturba lo scenario di rocce e acqua. Il vento costringe i ragazzi a tenere una mano sui cappelloni, aquiloni pronti ad alzarsi per seguire le correnti d’aria. Mi scattano un paio di foto e io a loro, e una per me, perché tre soggetti così simpaticamente fuori dal comune non li voglio dimenticare. Ritornati ai nostri mezzi mi dicono di aspettare. Si rifanno vivi con una maxi fetta di un dolce casereccio squisito. Sorrisi e dolcezza, una danza di gioia.
Non sono attratto dall’idea di restare quassù per la notte. Anche la mente mi consiglia di ritornare a Seisa. Potrebbe essere un ritorno molto faticoso, ma ce la posso fare. In fondo sono solo un po’ più di quaranta chilometri.
Ho deciso, torno indietro!
Fatico non poco per lasciarmi alle spalle il tratto di pista stretta e fangosa. Poi tutto si fa più facile, aiutato anche dall’estroso vento che ora mi spinge con regolarità.
Nel tardo pomeriggio, contento e appagato, rimonto la tenda sulla sua stessa impronta lasciata questa mattina.
Domani dovrò lavare e oliare per bene la bicicletta. Oggi è stata una sporca pedalata anche per lei.
Giornata di messa a punto del mio equipaggiamento. Pulizia meticolosa della tosta due ruote. Poi tocca alla tenda. Altro fallimentare tentativo di riparare il materassino. Lavo a mano i miei pochi stracci. Infine relax. Alterno momenti di lettura a momenti di osservazione su come va il mondo che mi circonda. Molti vacanzieri si spostano su motori di non so quanti cavalli, ma dormono in piccole tende di tessuto grossolano a forma di cunicolo. Quando le avvolgono si trasformano in rotoli enormi e pesanti, per niente maneggevoli. Nonostante l’ampia scelta di ottime tende, leggere e pratiche, gli australiani, e qualche imitatore straniero, preferiscono dormire in questi spartani rifugi. Magari lo fanno per crearsi un po’ d’avventura, semplificata dai potenti quattro per quattro, dagli aggeggi elettronici, dai pannelli solari e da attrezzate cucine da campo.
I nativi si muovono con calma e sono praticamente tutti in carne. Le donne, direi, molto in carne. Camminano muovendo ritmicamente di qua e di là i loro enormi ‘culoni’, tenendo per mano dei bambini filiformi, e seguite da un manipolo di cani pazientemente in attesa di un qualche avanzo. I gestori del campeggio hanno proibito di dare da mangiare a qualsiasi animale, cani compresi.
La sera, nel kiosko, osservo le donne ordinare la cena e ritornare a casa con cartoni di cibo già cotto e bottiglioni di bibite super zuccherate. Con questa dieta riusciranno a trasformare i loro gracili bimbetti in montagne di lardo.
Entra un gigante di ragazzo, capelli lunghi più neri e lucidi della sua pelle. Una bellezza che colpisce, in particolare le donne che lo puntano tutte, alcune così a lungo da assentarsi totalmente dai loro compiti del momento, perse in chissà quale mare di desideri e rimpianti.
Di notte sento i cani ribaltare i bidoni dell’immondizia per ispezionarli in cerca di sostentamento. Ci si deve arrangiare.
Il giorno seguente, di buon’ora, mi presento al porto con tutti i miei averi.
La nave non c’è. La giornata è soleggiata e calda. Sul molo delle donne pescano calando una semplice lenza. Una madre grassa, un padre ciccione e uno stecco di figlio pescano un grosso pesce argentato. La madre lo tira a pelo d’acqua e il padre con una fiocina a tre punte, simile a una grande forchetta, arpiona il pesce. Quando lo tirano sul porto se la ridono felici. Il bambino solleva il pesce per farsi fotografare. Se ne vanno soddisfatti. Anche un’altra donna, dopo il terzo pesce, raccatta le poche cose e se ne va salutando. Pescano giusto il fabbisogno giornaliero.
Da lontano, una nave fa la voce grossa per annunciare il suo arrivo. I pescatori avvolgono le lenze e se ne vanno, mentre il porticciolo si anima di persone in attesa. La nave, carica di container, lentamente attracca alla banchina. Devo togliere le borse perché la bicicletta la mettono in un container onde evitare i danni della salsedine. Con tutte le mie borse salgo sulla nave. Siamo una quindicina di viaggiatori. Uno steward ci fa sentire il suono dell’allarme e ci mostra come indossare il giubbotto salvagente. La mia cabina è la numero diciassette e oggi è venerdì. Se fossi superstizioso dovrei infilarmi subito il salvagente. Nella cabina sono solo. Il bagno, pulito, è nel corridoio. Ottima sistemazione.
Salgo sul ponte a osservare i lavori di scarico e carico. Gli ultimi a essere issati a bordo sono due fuoristrada, appoggiati in cima alla pila dei container. Appartengono a turisti che vogliono provare, come me, l’esperienza del ritorno via mare.
La sera, dopo che hanno cenato i lavoratori, tocca a noi nullafacenti infierire sull’ottimo cibo del self service. Libby e Rob m’invitano al loro tavolo offrendomi un bicchiere di vino che non è compreso nel biglietto e costa caro.
La nave si muove. Un giorno intero a bordo senza lasciare il porto. Dalla mia cabina sento il rumore forte dei motori. Ho imparato a difendermi portando sempre con me i tappi per le orecchie. Mi addormento contento.
In piena notte la nave attracca a Thursday Island, l’isola più importante dello Stretto di Torres. Dovrei uscire a dare un’occhiata, ma le lenzuola candide m’imprigionano, tanto da non accorgermi quando lasciamo l’isola.
Mi sveglio con la nave che balla. Mi sento strano. Lo stomaco è in subbuglio e non per colpa dell’ottima cena. È il mal di mare che su una nave di questa stazza pensavo non potesse succedere. Comincia una specie di ubriacatura con leggeri ma persistenti sintomi di vomito che dureranno per tutto il viaggio.
Al mattino, di fronte al ricco buffet della colazione, capisco che sto veramente male. Niente mi attira, lo stomaco ha chiuso i battenti. A bocce ferme avrei sbranato tutto.
Mi rivolgo allo steward per comprare le pillole anti mal di mare. Ventisette dollari solo per non vomitare, con lo stomaco che continua lo sciopero a oltranza. Riceve e sembra apprezzare solo qualche boccone di pane, un alimento che io continuo a considerare insostituibile.
A letto, rannicchiato su un fianco, sto bene.
Nel pomeriggio, nonostante il precario equilibrio, ubriaco senza aver bevuto, m’impongo di salire sul ponte. L’aria fresca attenua in parte il malessere, ma mi è vietato fare movimenti bruschi e anche il conversare accentua la nausea. Resto immobile nel vento a osservare tutta quella massa fluida.
La nave, in un assordante ruggito di motori, si ferma. Dalla boscosa costa sopraggiunge un barcone che viene agganciato. Comincia uno scambio di merci che durerà per un’ora. Intanto il sole comincia a nascondersi. Potenti fari illuminano la zona lavoro.
Non sono per niente nato uomo d’acqua. Non sono un uomo di mare e mi dispiace. Tutta quest’acqua mi mette soggezione. Ripenso all’articolo di un giornale che raccontava dello skipper di una barca a vela impegnato in una famosa regata caduto nel mare agitato. Quando i suoi compagni se ne sono accorti era ormai troppo tardi, e lui sapeva che nel momento della caduta era già morto, doveva solo aspettare la morte in mezzo a tutta quell’acqua.
A sensazione, mi opprime meno la morte degli scalatori per il freddo, per la stanchezza, per una caduta. Nel mare deve essere il massimo dell’angoscia.
Intanto gli occhi cercano un qualche uccello, un salto di un pesce, ma vedo solo lo spumeggiare della nostra scia. Passiamo vicini a uno scoglio sormontato da un piccolo faro. Un meccanico, che deve avere lottato con un motore tanto è unto, mi dice che pochi anni fa un operaio della manutenzione del faro è stato mangiato da un coccodrillo marino. Il collega, che era con lo sventurato, non se ne è neppure accorto.
Un’altra notte tranquilla. I tappi nelle orecchie mi isolano dal mondo e mi conciliano il sonno. Magari anche le pastiglie anti mal di mare sono complici di queste profonde dormite.
Questa sera, domenica 27 maggio, dovremmo sbarcare a Cairns.
Passo quasi tutto il giorno a osservare il mare. La costa continua a essere ricoperta di un rigoglioso verde. L’Australia è ricordata per i suoi infiniti deserti di terra rossa, ma ci sono vaste zone che niente hanno da invidiare alle più famose foreste tropicali.
Mentre sto godendo della salutare brezza, suona la sirena d’allarme. Tutti sul ponte, dove io mi trovo già, per una simulazione di pericolo. Forse sarebbe stato più sensato farla ieri l’altro. Ci infiliamo il salvagente, ascoltiamo per educazione lo steward, poi foto ricordo. Sono l’unico a non avere la macchina fotografica e nemmeno il telefono.
A cena veniamo avvertiti che, causa ritardo, passeremo la notte a bordo. Lo sbarco avverrà domani mattina dopo colazione. Per me è una gran bella notizia.
Nella notte sento i motori rallentare, poi spegnersi. Abbiamo attraccato nel porto di Cairns.
Ammucchiamo i bagagli presso la porta di uscita. Vedo un ragazzo portare la mia bicicletta sotto la scalinata. L’avevano messa a portata di mano. E così sono il primo a scendere accompagnato dai saluti di tutti. Aggancio le borse e sono pronto. Lo steward scende a darmi la mano e per chiedermi dov’è il caschetto. Dimenticato nella borsa. Ancora non ho preso l’abitudine d’indossarlo.
Di buon umore, in pantaloncini corti e maglietta, con il cervello ingabbiato dal casco, sotto una pioggerella piacevole, vado in cerca di un posto per la notte, che deve essere assolutamente un campeggio. Ne trovo uno a quaranta dollari. Storco il naso e via. La ragazza della reception mi segue, per suggerirmi il Tropic Days hostel dove permettono anche di campeggiare. Non senza difficoltà riesco a scovare l’ostello che, per pochi dollari, mi lascia montare la tenda nell’unico spazio rimasto libero del ridotto cortile.
Provo a sostituire il materassino autogonfiabile. O costano troppo o non li ritengo affidabili, per cui rimando. Chissà che non capiti un colpo di fortuna.
Rifaccio la scorta alimentare. Eseguo gli obblighi in fretta perché voglio ritornare per l’ultima volta nel pub che ho adottato come mio. Purtroppo non c’è la mia barista preferita, sostituita da una ragazzina graziosamente rotonda. Pranzo bene, con lo stomaco anti oceano voglioso di recuperare. Lo accontento aggiungendoci due bicchieroni di Cider, sidro secco di mele con il 5% di alcol. Approfitto della surriscaldata e pazza Cairns per stare in giro fino a notte fonda.
Specifiche
- Formato: 130x200
- Pagine: 196
- ISBN: 9788897320562
- Anno pubblicazione: 2021
- Prezzo copertina:: 15.00
- Esiste la versione ebook?: no